Nonostante gli errori, era una guerra che andava combattuta. Ha portato alla sconfitta del terrorismo tradizionale, fino alla nascita dell’Isis nel 2014. Scrive Paolo Alli, nonresident Senior fellow dell’Atlantic Council, già presidente dell’Assemblea parlamentare Nato
Ero molto restio a scrivere qualcosa sull’Afghanistan, perché non ho il problema di dire cose che mi facciano prendere un voto in più o vendere qualche copia di giornale, e avrei preferito restare in silenzio di fronte alla immane tragedia che si sta consumando in quel povero Paese.
Anche perché devo nuovamente constatare come la memoria del mondo diventi sempre più corta e si preferisca praticare lo sport della caccia al colpevole (che ovviamente è sempre un altro) piuttosto che rileggere con serietà e profondità una storia di vent’anni.
Così vediamo chi si scaglia contro Joe Biden, dimenticando che fu Donald Trump a firmare l’accordo con i Talebani il 29 febbraio 2020 a Doha, o chi accusa, appunto, Trump dimenticando che la radice dei disastri attuali della politica estera statunitense sta nelle sciagurate scelte di Barack Obama che abbandonò a sé stessa l’intera regione che comprende Mediterraneo e Medio Oriente, con le conseguenze di conflitti e instabilità che continuiamo a vedere, a partire da Siria, Iraq e Libia.
A proposito della scelta di Trump, mi viene da pensare che sia stata frutto di un calcolo assai più raffinato di quanto si possa pensare: una mossa per cercare di recuperare consenso in vista delle elezioni che poi lui stesso avrebbe potuto smentire in caso di vittoria, una polpetta avvelenata per il suo successore in caso di sconfitta. E, visto come stanno andando le cose, il risultato potrebbe dare ragione a questa ipotesi.
Vediamo poi quelli che si indignano per la vergogna che coinvolge “l’Occidente”, dimenticando che noi non viviamo su Marte e che molte scelte sono state da loro stessi condivise in passato.
Chi scopre ora il dramma degli afgani minacciati di morte per aver collaborato con gli occidentali non ricordano che i dati sull’immigrazione vedono già da anni i profughi afgani in cima alla lista dei disperati che scappano dalle rappresaglie degli estremisti islamici.
Molti si affannano a dire che ora bisogna mettere in campo una vera azione umanitaria, dimenticando gli sforzi e i sacrifici di quanti, militari e non, questa azione umanitaria l’hanno svolta sul campo nei vent’anni dell’occupazione, talora a prezzo della propria vita.
Leggiamo delle presunte asimmetrie tra l’azione di americani e britannici, tutta e solo di stampo militare, e quella degli altri alleati, improntata al peace-keeping, che sarebbe alla radice della disfatta di oggi. Chi fa queste affermazioni magari dimentica di avere avuto un ruolo diretto di alta responsabilità e di essersi pure aggiunto qualche mostrina sulla divisa.
Nella caccia alle streghe alla ricerca del colpevole, non può certo mancare la Nato, per taluni responsabile di ogni nefandezza del mondo. Costoro dimenticano che la missione ISAF fu costituita su mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e che il comando delle operazioni fu successivamente affidato alla stessa Nato. I Paesi che ne facevano parte erano 55 e nel 2001, quando iniziò la guerra, solo 19 di questi erano membri della Nato. Scorrendone l’elenco, si scoprono contributori molto interessanti e certamente non parte del cosiddetto Occidente, come Corea del Sud, Mongolia, Malaysia, Thailandia, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Filippine. Scelte, dunque, che hanno coinvolto un pezzo di mondo assai più vasto della Nato e dello stesso “Occidente”. Qualcuno dirà che mancavano Russia e Cina, dimenticando che nel 2001 erano Paesi in tutt’altre faccende affaccendati e non avevano rilevanza negli equilibri geopolitici globali.
Da ultimo, il mantra del “non si può esportare la democrazia”. Un falso storico evidente, basta vedere quanti Paesi hanno abbracciato il modello democratico dopo il collasso dell’Unione Sovietica, nazioni che ora stanno a pieno titolo nell’Unione europea o che ambiscono a entrarvi. Coloro che fanno queste affermazioni sono spesso gli stessi che invocano il rispetto dei diritti umani e delle donne, dimenticando che gli altri modelli di governo disponibili sul mercato sono quello cinese, quello russo o quello dei Paesi islamici. Mi pare che nessuno di questi regimi sia un campione nella difesa dei diritti fondamentali. L’Occidente ha sempre e comunque il dovere di proporre il modello democratico a tutti, consapevole che la sfida può essere vinta o persa perché ultimamente la decisione spetta al popolo.
Di fronte a questo mare di dimenticanza, mi ha preso un profondo senso di amarezza.
Poi ho letto le parole pronunciate del signor Piero Chierotti, padre del caporal maggiore Tiziano, caduto in un agguato nel 2012, uno dei nostri 53 eroi, come li ha giustamente definiti il presidente del Consiglio Mario Draghi. Della commovente testimonianza del signor Chierotti mi hanno colpito due passaggi, che mi ronzano continuamente nella testa: “Sforzi fatti, vite perse, sacrifici di ragazzi come Tiziano resi vani”. E ancora: “Tiziano era partito rivendicando un ideale di libertà e di speranza per un popolo oppresso, vittima del terrorismo e del fondamentalismo. Il suo era uno spirito mosso dall’altruismo, ben altro rispetto al risentimento che potevano provare gli americani all’alba dell’attentato alle Torri Gemelle. Mi domando, se oggi fosse vivo, se rifarebbe quella scelta. Credo che il suo sarebbe un sì convinto. Io, invece, nel vedere le immagini di queste ultime ore, ho i miei dubbi che ne sia valsa davvero la pena”.
Allora ho deciso di cercare di rispondere a questo dubbio, partendo dalla mia piccola, ma non del tutto nulla, conoscenza ed esperienza dell’Afghanistan.
Avendo a mia volta una memoria piuttosto scarsa, prendo sempre appunti dei miei incontri. Sono andato a rileggermi quelli del 17 novembre 2013, quando mi trovavo a Kabul, insieme a una decina di colleghi della Assemblea parlamentare della Nato, davanti al vicepresidente del parlamento afgano.
Elenco i punti che ho ritrovato, li riporto quasi come li avevo scritti allora, affidandoli ai lettori perché possano giudicare se in vent’anni si siano fatti solo errori.
- Il processo di democratizzazione va avanti, lentamente, ma inesorabilmente. Ci saranno le elezioni, vi sono aree ad alto rischio perché l’opposizione dei talebani a questo processo è fortissima, ma il percorso è avviato e il popolo ha capito, in larga maggioranza, che è la strada giusta. Sarà necessaria la protezione da parte di ISAF, ma oggi la gente, specie i giovani, vota per i programmi e non più per i potenti di turno. Questo è un segno di crescita della democrazia.
- Il ruolo delle donne cresce: in parlamento ce ne sono 69 su 249. Prima l’accesso alla politica era proibito alle donne.
- Prima del 2001 l’istruzione era riservata a 800.000 studenti, praticamente tutti maschi. Oggi vanno a scuola dieci milioni di persone, delle quali quasi il 40% sono bambine e ragazze. Le scuole sono state riabilitate, riaperte o costruite grazie agli occidentali.
- Il parlamento afgano sa quanto sia importante il rapporto con l’Onu e la comunità internazionale. L’Afghanistan vuole uscire dall’isolamento internazionale.
- Prima intere regioni del Paese erano irraggiungibili, a causa della conformazione del territorio. Questo è sempre stato un elemento di grande vantaggio per talebani e terroristi. Ora la rete stradale è praticamente raddoppiata, da 20.000 a oltre 40.000 chilometri, grazie agli ingenti investimenti occidentali. Ci volevano 10 giorni per andare da Kabul a Herat, oggi ci sono cinque voli diretti al giorno.
- Prima del 2001 solo il 10% della popolazione aveva l’energia elettrica, oggi siamo vicini al 40%, con punte del 70% nelle città.
- La modernizzazione del Paese causa la reazioni dei talebani che cercano di ostacolarne il processo, aiutati dalla struttura del territorio. A livello locale sopravvivono conflitti religiosi, propaganda islamista: i problemi veri sono lontani dall’essere superati. Per questo serve il supporto internazionale ancora a lungo.
- Le insorgenze contro il processo democratico sono sostenute anche da Paesi confinanti, a partire dal Pakistan, con cui però bisogna comunque instaurare buone relazioni di vicinato.
- L’Afghanistan è fortemente motivato a combattere il terrorismo di Al Qaeda (l’Isis on era ancora nato, nda), ma la gente è terrorizzata per quando gli occidentali se ne andranno (si iniziava a parlare di disimpegno, nda).
- (Sulla presenza italiana a Herat, da cui il vicepresidente proveniva, nda) la comunità della provincia di Herat non considera gli Italiani come stranieri, ma come fratelli. Sono impegnati nella difesa e nella sicurezza ma anche, instancabilmente, nella promozione sociale. Dopo il servizio spesso vanno nelle case, aiutano le famiglie, danno ripetizioni ai bambini.
- (Ma, su tutte, mi colpì questa affermazione, nda). “Le giovani generazioni non lasceranno morire i nuovi valori che permetteranno all’Afghanistan di relazionarsi con la comunità internazionale”.
Incontrammo anche rappresentanti di diverse Ong, giovani pieni di speranza in un futuro diverso. A proposito della esportazione della democrazia, ricordo una loro affermazione: “Il nostro parlamento non è un granché, ma se non ci fosse, cosa succederebbe?”.
Vorrei trarre alcune conclusioni in forma di domanda/risposta.
Era proprio necessaria una guerra in Afghanistan?
Sì, era una guerra che andava combattuta. Ha portato alla sconfitta del terrorismo tradizionale, fino alla nascita dell’Isis nel 2014. Il processo di ricostruzione ha consentito di creare le condizioni per una reale crescita del Paese: nuove infrastrutture, enorme incremento della educazione e della scolarizzazione, rispetto dei diritti fondamentali e del ruolo delle donne, moderni sistemi di comunicazione.
Sono stati fatti errori?
Certo, e molto gravi, che sono sulle pagine di tutti i giornali, dunque non sto a ripeterli. Ma l’errore degli errori sta nell’ennesimo fallimento della politica estera Usa, che da George W. Bush a Obama, a Trump e ora a Biden purtroppo ne ha azzeccate assai poche. Le conseguenze dell’abbandono da parte della coalizione internazionale erano scritte, forse solo i tempi sono stati molto più rapidi di quanto si potesse ragionevolmente prevedere.
Cosa succederà ora con i Talebani nuovamente al potere?
I Talebani si stanno dimostrando moderni nelle forme, a parole aperti al dialogo, ma nella sostanza sono sempre gli stessi, come ha lucidamente affermato uno dei migliori e più profondi conoscitori dell’Afghanistan, il generale Giorgio Battisti. Sono una sorta di Daesh 2.0, certamente con loro il Paese tornerà indietro di anni e le drammatiche fughe di questi giorni ne sono già una testimonianza. È assai probabile che la temuta “pulizia” nei confronti dei filo-occidentali si realizzi.
La speranza è che il terrore talebano non sconfigga le giovani generazioni e che nasca dall’interno della società afgana un movimento di resistenza, anche se serviranno generazioni per abbattere il terrore e le rivalità tribali tra le diverse etnie, il vero humus che consente il fiorire dell’integralismo islamico.
Credo però che i Talebani non avranno vita facile, perché non è difficile prevedere un Paese sempre più isolato nel contesto internazionale, ma su questo mi riprometto un approfondimento successivo.
Che fare ora?
L’intera comunità internazionale, a partire dalle grandi organizzazioni multilaterali, Onu e Ue in testa, deve porre condizioni durissime sia al nuovo regime afgano, sia a chi lo intende sostenere, Pakistan in testa. Il ruolo della Nato potrà essere decisivo nel suggerire alla politica le soluzioni più adeguate, soprattutto per la profonda conoscenza che l’Alleanza Atlantica ha maturato in vent’anni di presenza nel Paese e per la preparazione e la serietà dei propri analisti.
Non so se il signor Chierotti leggerà questo mio scritto, io sono convinto che sia stato gettato il seme giusto e, come dice un Altro, “se il seme non muore non dà frutto”.
Sono sicuro che il seme che Tiziano ha messo nell’arido terreno afgano, darà molto frutto. Come disse il vicepresidente del parlamento nell’ormai lontano 2013: “le giovani generazioni non lasceranno morire i nuovi valori”.
Signor Chierotti, nonostante tutti gli innegabili e gravissimi errori fatti, credo che ne sia valsa la pena. Tiziano aveva ragione.