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Talebani nell’orbita di Pechino? Non è scontato. Scrive Dottori

Cos’è che non ha funzionato e che accadrà ora in Afghanistan? Risponde Germano Dottori, consigliere d’amministrazione di Med-Or e consigliere scientifico di Limes

La fulminea riconquista talebana dell’Afghanistan ha stupito soltanto gli osservatori più distratti e meno attenti alle vicende di quello sfortunato Paese. Era certa dal momento stesso del completamento del ritiro da parte delle truppe occidentali.

Il risultato che osserviamo sgomenti in queste ore si presta tuttavia a molte riflessioni.

Intanto, è legittimo chiedersi come mai le forze di sicurezza governative non abbiano praticamente opposto resistenza, malgrado fossero state addestrate in questi anni dall’Alleanza Atlantica e disponessero di armamenti adeguati.

Quanto è accaduto si spiega alla luce di due circostanze decisive.

Innanzitutto, in via generale, nessuno strumento militare è in grado di supplire alla debolezza politica dello Stato che lo esprime: le istituzioni sorte in Afghanistan dopo il 2001 non si sono dimostrate all’altezza della sfida, per mancanza di radicamento nel territorio.

Mohammad Najibullah riuscì a sopravvivere due anni al rimpatrio del corpo di spedizione sovietico anche perché disponeva almeno dei resti di un partito. Di contro, pur avendo dalla sua un lignaggio importante, Hamid Karzai è stato un leader debole, condizionato dall’esiguità della propria base tribale, mentre il tecnocrate Ashraf Ghani non è mai stato percepito come qualcosa di più di un emigrato di ritorno. Troppo poco per motivare i soldati e i poliziotti afghani a morire per lui, una volta allontanatisi gli americani.

Dovunque hanno potuto farlo, esercito e polizie hanno cercato riparo oltre confine, battendosi soltanto dove era chiaro che la cattura sarebbe equivalsa ad un’esecuzione immediata. I Talebani hanno superato anche la loro resistenza adottando un approccio differente ed apparentemente più inclusivo, ovvero cooptando i propri avversari e promettendo l’amnistia a chiunque avesse gettato le armi. Il passaggio probabilmente più emblematico di questa svolta si è verificato a Herat con la resa e l’adesione alle forze talebane di Ismail Khan, un potente warlord locale che non si era mai piegato al mullah Mohammed Omar. Da quel momento, l’avanzata dei Talebani è diventata incontenibile. Non è neppure da escludere che sia stata agevolata anche dalla presenza di simpatizzanti dei miliziani islamisti tra i coscritti delle forze di sicurezza governative.

I Talebani 2.0 che hanno ripreso Kabul sembrano molto più smart dei loro predecessori del secolo scorso. Sono attenti alla comunicazione e si muovono con l’obiettivo di facilitare il riconoscimento internazionale del loro restaurato dominio. Hanno trovato il modo di far immortalare alcuni di loro intenti a giocare con le giostre a Herat, laddove tra il 1996 e il 2001 in Afghanistan era stato proibito anche di far volare gli aquiloni. E hanno promesso alle donne la libertà di continuare a girare da sole. Nessuno ovviamente sa cosa succederà di preciso più in là, quando i riflettori saranno spenti, ma la moderazione quanto meno tattica dimostrata in questi giorni è un dato difficilmente ignorabile.

Il secondo quesito che la riscossa talebana solleva riguarda le cause del fallimento riportato dall’Occidente e dalla comunità internazionale in venti anni d’intervento. Cos’è che non ha funzionato?

Stando alle memorie di Tommy Franks, il generale americano che lo aveva conquistato nel 2001, il Pentagono sapeva che sottoporre l’Afghanistan a una pesante occupazione militare avrebbe innescato prima o poi una rivolta incontenibile. Il Paese avrebbe perciò dovuto essere restituito ai signori della guerra che se lo erano conteso prima dell’arrivo del mullah Omar, mentre gli Stati Uniti avrebbero conservato una ridotta aliquota di forze speciali per proseguire la lotta ad al-Qaeda senza dar troppo nell’occhio.

Nessun americano aveva pensato di esportare con le armi la democrazia a Kabul dopo l’abbattimento delle Torri Gemelle. Quell’illusione neoconservatrice si sarebbe invece affacciata nel 2003 in Iraq.

Sono stati invece altri insospettabili attori a innescare involontariamente le dinamiche che avrebbero condotto alla sconfitta: noi alleati europei degli Stati Uniti. Desiderosi di dimostrare le nostre capacità, scottati dall’esser stati emarginati dopo l’11 settembre malgrado la dichiarazione di applicabilità del casus foederis dell’Alleanza Atlantica, accettammo infatti la sfida di guidare il processo di stabilizzazione dell’Afghanistan, assumendo il comando dell’Isaf, che sotto le Nazioni Unite non era mai uscita dal circondario di Kabul. E ne abbiamo fatto il braccio armato di un progetto che prevedeva la costruzione di un moderno Stato centralizzato dove non c’era mai stato.

Esiste una correlazione diretta e strettissima tra il progressivo allargamento dell’area di responsabilità della missione Isaf e l’intensificazione della guerriglia talebana. Volevamo stupire con effetti speciali un’America che si stava impantanando in Iraq ed abbiamo invece preparato un altro disastro di proporzioni simili. Spesso, inconsapevolmente, alcuni contingenti atlantici, come quello britannico nell’Helmand, hanno finito con l’essere impiegati dal governo afghano per perseguire obiettivi tribali cari al presidente Karzai, permettendo ai Talebani di infiltrarsi tra gli scontenti. Il resto lo ha fatto probabilmente il Pakistan, preoccupato delle derive filo-indiane del governo di Kabul.

A un certo punto, George W. Bush e Barack Obama provarono a correggere la traiettoria, sottraendo ai loro alleati la guida delle operazioni e inviando in teatro leader militari prestigiosi specializzati nella repressione delle insurrezioni. Ma senza crederci troppo e ponendo limiti temporali al rafforzamento delle forze schierate. Inoltre, a cambiare lo scenario sarebbero a un certo punto intervenute le primavere arabe e l’uccisione di Osama bin Laden, rendendo l’impegno in Afghanistan eccessivamente costoso in rapporto alla sua effettiva importanza strategica.

Dobbiamo ammettere di aver perso non perché i Talebani fossero invincibili, ma perché purtroppo per gli afghani non esiste nulla nel loro Paese che possa oggi giustificare razionalmente la dispersione delle risorse umane e materiali necessarie a controllarlo, pacificarlo e farlo progredire.

Che accadrà ora? Gli Stati Uniti hanno vinto la Guerra fredda malgrado la sconfitta in Vietnam. Non è quindi il caso di drammatizzare. L’impatto globale di quanto sta accadendo in questi giorni potrebbe essere assai meno grave di quanto si teme.

Non sarà in Afghanistan che sarà decisa la gara di potenza ingaggiata da americani e cinesi. I Talebani 2.0 rappresentano un’incognita per tutti e persino Washington non esclude di avere in futuro rapporti strutturati con loro: si dice che il deposto presidente Ghani sia dovuto riparare in Tajikistan anche perché non sicuro della disponibilità degli americani a ospitarlo e timoroso di far la fine di Mohammad Reza Pahlavi. Si tratta di un dato di fatto emblematico: Washington non distoglierà il suo sguardo e saranno in molti a non farlo.

Il mullah Abdul Ghani Baradar si è insediato nel palazzo presidenziale di Kabul. Ma la lotta per esercitare un’influenza sull’Afghanistan è destinata a proseguire. Nulla è scontato. Men che mai l’ingresso dei Talebani nell’orbita di Pechino.



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