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Akira Kurosawa come Luigi Pirandello. Il ricordo di Mario Verdone

Di Mario Verdone

Nel settembre 1951 “Rashomon” di Akira Kurosawa vinceva il Leone d’Oro a Venezia. Dopo sei mesi arrivava l’Oscar (1952) per il miglior film straniero. L’Occidente scopriva un maestro del cinema, al pari di Chaplin, Ford, Renoir, De Sica, Rossellini. Ecco un ricordo di Kurosawa scritto dallo storico, e suo amico, Mario Verdone

“Nella mia famiglia ero l’ultimo di sette bambini. Figlio di una madre gentile e di un padre severo, allievo di una scuola per Ufficiali dell’Esercito, e poi docente di una Scuola di Educazione Fisica”.

Akira Kurosawa era appassionato di pittura, e fu attraverso la pittura che si avvicinò al cinema. Voleva dipingere, ma chi avrebbe comprato i suoi quadri, per permettergli di guadagnarsi da vivere mediante questa attività da bohémien? Entrò a far parte del Gruppo di Artisti del Proletariato giapponese, e in tale ambiente ebbe modo di interessarsi molto di letteratura russa: Tolstoj, Turgenev, ma soprattutto Dostojevskij, i cui romanzi considerava “esperienze scientifiche dell’anima umana”.

Dipinse manifesti per film ed ebbe dal fratello Eigo, specialista nel presentare e commentare film stranieri, un incoraggiamento ad entrare nel mondo dell’industria cinematografica. Divenne assistente del regista Kajiro Yamamoto sino a quando non esordì come regista nel 1943 con Sagata Sanshiro (L’inventore del judo).

(…) La vera tendenza di Kurosawa è di parlare del Giappone contemporaneo, uscito dalla Seconda guerra mondiale. Con Nora inu (Cane randagio, 1949), con descrizioni dei bassifondi di Tokyo, delle rovine della città del dopoguerra, in una sorta di carattere poliziesco: ed è qui che avviene l’incontro con Toshiro Mifune, che diverrà uno dei suoi attori preferiti (…).

Nel 1951 Akira Kurosawa si impone alla ribalta internazionale, alla Mostra di Venezia, con la storia di Rashomon (Leone d’Oro): una rivelazione piena di conseguenze per il cinema giapponese, fino ad allora pressoché ignorato dai Paesi occidentali. Si tratta di un film di rara potenza, di una sensibilità figurativa suggestiva che introduce lo spettatore in un universo del tutto diverso, anche se svela misteriosi contatti con il mondo estetico dell’Occidente.

Nella violenza selvaggia del brigante Tojamaru (Toshiro Mifune) che uccide un uomo e vìola la sua donna, sotto gli occhi di un boscaiolo, nel processo che svela – quasi pirandellianamente, come appare alla critica europea – tre versioni diverse dell’avvenimento, si manifesta una concezione di vita che considera tutti, l’ucciso, l’assassino, il testimone, tutti colpevoli. In questo film, uno dei capolavori del cinema, troviamo una delle interpretazioni più ricche di Toshiro Mifune.

*Estratto dal discorso tenuto a Firenze (Badia Fiesolana) nel 1978 per il premio David Europeo consegnato ad Akira Kurosawa

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