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Il detto (e il non detto) di Biden che cambia il modo di pensare la guerra

Di Claudio Bertolotti e Chiara Sulmoni

Le parole del presidente Usa sono state rivolte all’opinione pubblica statunitense e sono coerenti con il suo modo di intendere l’impiego dello strumento militare come parte delle relazioni internazionali. Eppure non trovano solidi appigli a giustificazione della scelta fatta. L’analisi di Claudio Bertolotti e Chiara Sulmoni, rispettivamente direttore esecutivo e cofondatrice e presidente di START InSight

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden nel suo discorso del 16 agosto 2021, 24 ore dopo l’ingresso dei talebani nel palazzo presidenziale afghano, ha ribadito le ragioni della ritirata dall’Afghanistan; una ritirata da tutti considerata disastrosa. Le sue parole, chiaramente rivolte all’opinione pubblica statunitense e non agli afghani o ai Paesi membri dell’alleanza che ha sostenuto la guerra più lunga, consegnano alla storia una sconfitta politica, prima che militare.

Occorre premettere che, come presidente a cui verosimilmente non sarà concessa la possibilità di un secondo mandato, per l’età e per ragioni di salute, è la persona più adatta a chiudere l’impegno afghano, assumendosene la responsabilità. Di questo bisogna rendere merito.

Ciò che stride però nell’ascoltare le sue parole sono due aspetti: la forma con cui ha affrontato la questione – fredda, quasi infastidita, e frettolosa – e la negazione di quanto realizzato dalle precedenti amministrazioni.

Ed è su quest’ultimo aspetto che è utile e doveroso soffermarsi, anche per rendere conto e dare un senso a 20 anni di permanenza sul suolo afghano. Chi ha seguito da vicino e quindi conosce tutte le fasi di questo conflitto, è rimasto sorpreso da dichiarazioni che, oltre a non essere totalmente aderenti alla realtà dei fatti, rinnegano gli impegni presi dagli Stati Uniti nel corso degli anni.

Un ulteriore elemento di critica, aspetto rilevato da più analisti, è stata l’assenza di un qualunque riferimento al contributo della Nato in quella che è sempre stata una guerra a guida statunitense ma il cui onere è stato anche sostenuto, in termini di vite umane e di risorse materiali e finanziarie, dai paesi membri dell’Alleanza Atlantica.

Infine, altro aspetto di notevole rilievo, Biden ha sì detto che gli Stati Uniti si ritirano militarmente dall’Afghanistan, ma non ha spiegato perché in venti anni di impegno militare i talebani e Al-Qa’ida non siano stati sconfitti, mentre nuove minacce terroristiche si affacciano oggi al mondo proprio da quell’Afghanistan in cui gli Stati Uniti hanno condotto la loro guerra, imponendo agli alleati tempi, spazi, strategie e vincoli.

VEDIAMO ALCUNI PASSAGGI 

Dice Biden: “Siamo andati in Afghanistan quasi 20 anni fa con obiettivi chiari: prendere quelli che ci hanno attaccato l’11 settembre 2001 e assicurarci che Al-Qa’ida non potesse usare l’Afghanistan come base da cui attaccarci di nuovo. L’abbiamo fatto. Abbiamo gravemente indebolito Al Qa’ida in Afghanistan. Non abbiamo mai rinunciato alla caccia a Osama bin Laden e l’abbiamo preso”.

Quello che afferma Biden è vero, ma qualunque analista oggi concorda sul fatto che non solo al-Qa’ida è più vicina di prima ai talebani, ma che addirittura si è radicata una galassia terrorista che ha base in Afghanistan e che oggi minaccia la regione – come il gruppo jihadista dell’Islamic Movement of Uzbekistan, i terroristi uiguri dell’East Turkestan Islamic Movement, i talebani pakistani del Terek-e Taliban Pakistan, tanto per citarne alcuni. Per non parlare dei gruppi terroristi che dall’Afghanistan, oggi, minacciano il mondo intero, con particolare riferimento all’evoluzione del cosiddetto Stato Islamico, nato in seguito all’invasione statunitense dell’Iraq, e che in Afghanistan ha progressivamente aumentato la propria forza e capacità. E comunque, pur volendo concordare con quanto Biden dice, è su quel che non dice che si sofferma l’attenzione: perché dopo la morte di Osama bin Laden e “l’indebolimento” di al-Qa’ida, gli stati Uniti non si sono ritirati dall’Afghanistan ma hanno aspettato poco meno di dieci anni?

Inoltre, va evidenziato un aspetto fondamentale che spesso si nasconde sotto la voce “impegno in Afghanistan”: la presenza di due missioni. Da una parte, l’operazione Enduring Freedom (sostituita nel 2015 da Freedom’ Sentinel): una missione di contro-terrorismo finalizzata a colpire i responsabili degli attacchi agli Stati Uniti dell’11 settembre 2001. Dall’altra parte la missione Isaf (poi sostituita dalla Resolute Support della Nato) che invece aveva il compito di sostenere le istituzioni afghane garantendo loro una cornice di sicurezza. Due missioni molto diverse tra di loro, inizialmente non coordinate a causa di comandi differenti, ma che Biden ‘fonde’ nel suo discorso, certamente per semplificare ma commettendo il grande errore di associare l’attività di contro-terrorismo a quella di supporto alla sicurezza e al sostegno alle istituzioni afghane. Una scelta di opportunità, forse passata inosservata.

E ancora, Biden: “La nostra missione in Afghanistan non avrebbe mai dovuto essere di nation-building. Non avrebbe mai dovuto creare una democrazia unificata e centralizzata. Il nostro unico interesse nazionale vitale in Afghanistan rimane oggi quello che è sempre stato: prevenire un attacco terroristico alla patria americana”.

È legittimo che Biden possa non concordare sull’impegno degli Stati Uniti nella guerra in Afghanistan, cosa che peraltro non ha mai nascosto. Ma quello di Biden è un ruolo istituzionale inserito in un percorso lineare che segue l’operato delle precedenti amministrazioni: non è il signor Biden, è il presidente degli Stati Uniti che amministra un paese, una nazione. E dunque non può negare il lavoro fatto dagli Stati Uniti nel corso dei vent’anni di guerra: un lavoro che solo in parte si è concentrato nella lotta al terrorismo. Il presidente George W. Bush, che la guerra in Afghanistan l’ha iniziata dice che “l’Afghanistan è stata l’ultima missione di nation-building”. Barack Obama, poi, è stato il presidente che più di tutti ha accelerato e investito nel processo di nation building come premessa al ritiro delle truppe statunitensi – truppe che lui stesso, per primo, ha iniziato a ridurre dopo il surge da lui stesso autorizzato nel 2011 (contro il parere di Biden, va detto) e che poi ha destinato all’addestramento delle forze di sicurezza afghane dopo l’avvio della “transizione irreversibile”. Ed è lo stesso Obama, quello di cui Biden è stato vice-presidente, che ha a lungo insistito sulla questione dell’aiutare l’Afghanistan a diventare un paese democratico – cosa che Biden invece nega fosse tra gli obiettivi.

Continua: “Ho sostenuto per molti anni che la nostra missione avrebbe dovuto essere strettamente focalizzata sull’antiterrorismo, non sulla contro-insurrezione (…)”.

Questo è forse uno degli aspetti più rilevanti perché, di fatto, pare voler mettere una pietra tombale sulla dottrina contro-insurrezionale (Coin), a cui si è affiancata la più moderna dottrina di supporto alle forze locali (Security Force Assistance – Sfa). La dottrina contro-insurrezionale, rivista e concettualizzata in chiave moderna dal generale David Petraeus e applicata in Afghanistan da lui e dal generale Stanley McChrystal, è divenuta ufficialmente la dottrina di impiego delle truppe della Nato. Oggi dobbiamo considerare quella dottrina archiviata? Biden non lo dice, ma lo fa capire, perché secondo la sua visione l’impiego dello strumento militare è da intendersi in senso di contro-terrorismo, a distanza, con poche o assenti truppe sul terreno. E lo stesso concetto di supporto alle forze di sicurezza locali (Sfa) verrebbe meno, ammettendo di fatto l’inefficacia dottrinale attualmente utilizzata dai paesi della Nato (tra i quali anche l’Italia) per pianificare e condurre operazioni: Biden ci sta dicendo che stiamo sbagliando nelle missioni in Africa, nel Sahel e nel nord del continente? Se così fosse si imporrebbe la necessità di una revisione dottrinale dell’impiego delle truppe in operazioni, e non sarebbe un lavoro da poco.

E ancora, Biden: “Quando sono entrato in carica, ho ereditato un accordo che il presidente Trump ha negoziato con i talebani. Secondo il suo accordo, le forze statunitensi sarebbero state fuori dall’Afghanistan entro il 1° maggio 2021, poco più di tre mesi dopo il mio insediamento. Le forze statunitensi si erano già ritirate durante l’amministrazione Trump, da circa 15.500 forze americane a 2.500…”.

Vero, l’accordo fu firmato ai tempi dell’amministrazione di Donald J. Trump, il quale riportò i talebani a quel tavolo negoziale che fu voluto e attivato dal suo predecessore Obama: ma l’accordo firmato dagli Stati Uniti con i talebani prevedeva il rispetto degli impegni presi, in primis la riduzione della violenza, pena l’annullamento dell’accordo stesso. Ma i talebani non hanno mai rispettato i termini dell’accordo, hanno aumentato la violenza, gli attacchi indiscriminati, l’offensiva contro le forze di sicurezza afghane, gli omicidi di giornalisti, politici, funzionari governativi. Quindi gli Stati Uniti non erano obbligati a rispettare quell’accordo di cui erano venute meno le premesse. Ma Biden questo non lo dice.

In conclusione, possiamo dire che il discorso di Biden sia perfettamente coerente con la sua visione e il suo modo di intendere l’impiego dello strumento militare come strumento delle relazioni internazionali, ma non trova solidi appigli a giustificazione della scelta fatta, in termini di tempi e modalità, così come non rafforza, bensì indebolisce, l’immagine degli Stati Uniti all’interno dell’arena globale lanciando un chiaro segnale a tutti i gruppi terroristici e insurrezionali, e cioè che la perseveranza paga, e che al massimo dopo 20 anni di lotta, il jihadismo può vincere sugli eserciti più potenti del mondo.


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