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Centinaia di silos per missili nucleari. Così la Cina preoccupa gli Usa

Cresce la preoccupazione degli Stati Uniti (e non solo) per le ambizioni nucleari della Cina. Nel giro di poco più di un mese, l’analisi delle immagini satellitari da parte della Federation of American Scientists ha rivelato la costruzione di due diversi siti nel nord del Paese, per un totale di circa 230 silos adatti al lancio di missili intercontinentali. Si aggiungono agli avanzamenti nel campo dell’ipersonica…

La Cina ha attualmente circa 25 silos (quelli noti) per il lancio di missili balistici intercontinentali. Procede però a “ritmo spedito” nella costruzione di altri 240, più di quelli attualmente a disposizione di Stati Uniti e Russia. Lo ha rivelato la Federation of American Scientists, l’organizzazione (non profit and non partisan) fondata nel 1945 con l’obiettivo di offrire consulenza scientifica alle decisioni con impatto sulla sicurezza nazionale degli Stati Uniti, nata intorno al dibattito originato dal Progetto Manhattan. Nei giorni scorsi la fondazione ha pubblicato una nuova analisi (anticipata dal New York Times) di immagini satellitari, mettendo in luce la realizzazione di un nuovo sito oltre quello rivelato a inizio di luglio a Yumen, nella provincia di Gansu, nella parte centro-settentrionale del Paese, in via di realizzazione per 120 silos.

LE PREOCCUPAZIONI

A rilanciare l’analisi è stato per primo lo US Strategic Command (che ha competenza sull’arsenale nucleare americano), ribadendo le proprie preoccupazioni per gli sviluppi del Dragone. Già ad aprile, l’ammiraglio Charles Richard, comandante dello StratCom, aveva inviato testimonianza scritta al comitato Armed Services del Senato americano, descrivendo la politica “molto opaca” della Cina in campo nucleare, tanto da rendere “difficile determinare le sue intenzioni”. Il Dragone, stando alle “prove” citate dallo StratCom, avrebbe messo le sue forze nucleari in stato di allerta maggiore, quella che gli Usa definiscono “Launch on warning”.  America’s nuclear arsenal.

I NUOVI SITI DI LANCIO

La nuova infrastruttura rivelata dalla Federation of American Scientists si trova 380 chilometri più nord-ovest rispetto a Yumen, nei pressi della prefettura di Hami, nella parte orientale dello Xinjiang. A scoprirla è stato per primo Matt Korda, ricercatore del “Nuclear information project” della federazione, che ha lavorato su comuni immagini satellitari (Google Earth) per poi passare a quelle fornite da Planet a risoluzioni maggiori. Secondo l’analisi, i silos in fase di costruzione ad Hami sarebbero in una perfetta struttura a griglia, a distanza di circa tre chilometri, con le relative strutture di supporto. Nel complesso l’area occuperebbe ben 800 chilometri quadrati (circa due terzi dell’area occupata dal Comune di Roma, per intenderci), quanto quella occupata dal sito di Yumen, più avanti nello sviluppo. Ad Hami i lavori sono iniziati lo scorso marzo e procedono “a ritmo spedito”. In quattro mesi sono state realizzate cupole protettive su “almeno 14 silos”, mentre il terreno è stato lavorato “per la costruzione di altri 19 silos”. Le cupole in questione servono a mantenere la temperatura sottostante stabile, ma anche per evitare gli sguardi indiscreti dall’alto. La griglia dei lavori sul terreno indicherebbe che l’obiettivo è di realizzare “circa 110 silos”. Lo sviluppo dei lavori sarebbe del tutto simile a quello osservato a Yumen e nel più piccolo sito di Jilantai, nella Mongolia interna, già conosciuto e ospitante dodici silos di lancio.

LE AMBIZIONI

Tutti sarebbero dedicati a vettori balistici intercontinentali, con gittate superiori ai 5.500 chilometri. Si guarda soprattutto ai DF-5, lanciatori da oltre 33 metri di altezza, sviluppati dagli anni 60, i primi Icbm cinesi (operativi dagli anni 80), disponibili anche nella versione “B” per il lancio di testate multiple. Il range sarebbe di 13mila chilometri, in grado di raggiungere dal territorio cinese quello statunitense o europeo. Ma i vettori a disposizione di Pechino sono molteplici, e non solo quelli con lancio da silos (qui tutto l’arsenale cinese). Alla base ci sono le note ambizioni da grande potenza guidate da Xi Jinping, certificate nel documento reso noto a luglio 2019, “La Difesa nazionale della Cina nella nuova era”. Una cinquantina di pagine in lingua inglese (proprio far conoscere ambizioni e rivendicare interessi ai competitor) e un obiettivo scritto a chiare lettere, “avanzare in modo completo nella modernizzazione” di tutti i segmenti delle Forze armate entro il 2035, così da disporre entro il 2050 di uno strumento militare “world-class”. Nel budget militare 2021 ci sono 209 miliardi di dollari, +6,8% rispetto allo scorso anno, in grado di esprimere una capacità di acquisto considerata dagli esperti oltre due terzi del budget militare americano (i numeri puri sono da valutare alla luce della parità di potere d’acquisto).

TRA NUMERI…

L’attenzione è forte per quanto riguarda il settore nucleare. All’incirca un anno fa, mentre gli Usa discutevano sull’uscita dagli accordi Open Skies, Hu Xijin, direttore di Global Times (il tabloid a diffusione mondiale del Partito) invitava il governo ad aumentare il numero di testate nucleari fino a mille. Secondo i numeri del think tank svedese Sipri, che monitora ogni anno il tema, dal 2020 alla metà del 2021 la Cina ha aumentato il suo arsenale atomico da 320 testate nucleari a 350 (il Pentagono ne stimava 200 a settembre 2020). Resta apparentemente poca cosa rispetto alle 5.550 testate degli Stati Uniti e alle 6.255 della Russia (che comunque hanno ridotto i rispettivi arsenali), anche se ormai il confronto non è più sui numeri, ma sull’evoluzione tecnologica tra miniaturizzazione e vettori ipersonici. È per questo che l’ascesa di Pechino sul fronte nucleare preoccupa sia Washington sia Berlino, tanto da finire tra i pochi punti di incontro tra Joe Biden e Vladimir Putin nel vertice di metà giugno a Ginevra.

… E TRATTATI

In quell’occasione i due presidenti hanno firmato una dichiarazione congiunta sul controllo degli armamenti, chiarendo la volontà di lanciare “un dialogo approfondito” e di passare a “un nuovo trattato”. A spingere in tale direzione c’è la comune preoccupazione per la Cina. Non è certo un segreto che la scarsa determinazione messa in campo da americani e russi per far sopravvivere il trattato Inf (che vietava il dispiegamento a terra di armi nucleari a medio raggio, ossia quelle con una gittata tra i 500 e i 5.500 chilometri) sia stata legata soprattutto all’insofferenza verso obblighi che non vincolavano Pechino, libera di proseguire la sua modernizzazione missilistica. E Pechino è infatti andata avanti notevolmente negli ultimi anni, tra nuovi vettori intercontinentali, missili a planata ipersonica e testate nucleari sempre più moderne. Nel report Sipri di giungo, la Cina è, tra i nove Paesi nucleari, quello che ha aumentato di più la disponibilità di testate nucleari, venti in più in un anno, senza la possibilità di capire quali siano quelle dispiegate e quelle in stato di allerta (Usa e Russia hanno su questo obblighi di trasparenza).



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