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Cossiga e la necessaria ricostruzione della politica. Il ricordo attuale di Savona

Pubblichiamo l’intervento di Paolo Savona pronunciato al conferimento della seconda edizione del Premio Francesco Cossiga per l’intelligence. La prima edizione del riconoscimento promosso dalla Società Italiana di Intelligence venne assegnata al compianto Carlo Mosca. Presidente della giuria Gianni Letta, vice presidente Giuseppe Cossiga

Ringrazio vivamente per avermi assegnato il Premio ideato per onorare la memoria di un grande Statista: Francesco Cossiga. Più volte ho ricordato quali fossero i suoi pregi intellettuali e politici di cui ho beneficiato – e con me molti altri – sintetizzabili nel giudizio che era una macchina per pensare e un eccellente maestro.

Nell’occasione mi soffermo su una sua Academy Lecture sul tema dell’Institutional Reform in Italy tenuta il 15 aprile 1993 all’Italian Academy for Advanced Studies in America della Columbia University, nella quale egli affronta “con il necessario coraggio e rigore … i fondamenti etico-culturali” della crisi politica che affliggeva l’Italia e che tuttora ci affligge.

L’esordio della Lecture ha tutti i tratti dei modi di essere di Cossiga. Afferma infatti che la “grande questione morale nazionale”, che nella inesauribile fantasia italiana ha trovato il suo nome proprio in ‘Tangentopoli’, non è la causa della crisi politico-istituzionale… ma è l’effetto di essa, soprattutto per la crisi politica, culturale ed etica della società italiana che le congiunge ed entrambe sottende”.

Dopo essersi intrattenuto sul significato della parola crisi “non per civetteria filologica”, ma per precisare il suo contenuto in un problema irrisolto di “‘riforma istituzionale’ e cioè di riforma dell’ordinamento del potere pubblico”, Cossiga richiama il suo Messaggio sullo stato delle istituzioni inviato il 26 giugno 1991 alle Camere in qualità di Presidente della Repubblica. Il Messaggio è stato troppo superficialmente discusso e altrettanto rapidamente archiviato, un tema sul quale mi sono già intrattenuto in uno scritto curato con Pasquale Chessa. In quella occasione ho sollevato il quesito se Cossiga, sempre bene informato, fosse informato su quanto ‘bolliva in pentola’ nella magistratura milanese, senza ottenere risposta, quella che invece si rinviene nel documento in esame.

Esordisce nella Lecture tributando un elogio alla Costituzione del 1948 che “ha sviluppato tutta la sua forza pedagogica dei suoi grandi principi” consentendo all’Italia “un lungo periodo di sviluppo dei beni fondamentali per la vita di un popolo; l’indipendenza nazionale, le libertà politiche e sociali, il pluralismo delle forze politiche, la crescita economica e la collaborazione tra le classi sociali”. Egli sostiene che i valori in essa accolti sono penetrati nella cultura popolare consentendo di reggere “alla tragica avventura del sovversivismo di sinistra e del sovversivismo di destra…. In Italia, il riferimento politico, ideologico e umano ai due sistemi contrapposti nei quali il mondo della guerra fredda si era suddiviso, creò all’interno contrapposizioni anche fra i cittadini, assai simili a quelle che Carl Schmitt indicava nel rapporto ‘amico-nemico’ …. Soltanto la saggezza italiana … la prudenza dei grandi leader democratici … consentì al nostro Paese di adattare la vita politica e il funzionamento della Costituzione”.

Subito dopo afferma che “dobbiamo riconoscenza alla nostra Costituzione; ma questo sentimento non ci deve impedire la riflessione critica e l’impegno politico per valutarla nel confronto dei mutati tempi, e quindi migliorarla e ammodernarla”. Ricorda che le sue debolezze intrinseche sono dovute al fatto che “sui Padri costituenti si proiettava ancora l’ombra della dittatura, dell’esecutivo onnipossente, del potere arbitrario, della inesistenza di una vera e forte rappresentanza nazionale”, i cui rischi di un ritorno si vollero evitare, indebolendo le istituzioni democratiche a cui dava vita.

A questo vizio di origine aggiunge “l’inattuazione per lunghi anni di parte della Costituzione” e le “modificazioni tacite, operate e tentate per la via dei regolamenti parlamentari o con prassi e convenzioni costituzionale non sempre conformi al suo spirito”. Egli ricorda che si deve arrivare all’agosto 1988 per “varare, in forma ridotta rispetto alle esigenze e con talvolta paralizzanti compromessi, la legge sulla disciplina dell’attività di governo e sull’ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri”, lasciando irrisolto il problema di dare una forma di Governo stabile a un Paese che ha cambiato i vertici dell’esecutivo in media meno di ogni due anni, con inevitabili conseguenze del prevalere della soddisfazione di istanze di breve andare sui piani strategici del Paese. La stessa critica è rivolta all’inattuazione di “una concreta differenziazione, nella pari dignità, tra i due rami del Parlamento” che ha ricevuto lo stesso trattamento riservato alla forma di Governo.

Questa situazione covava nel corpo sociale fin dall’inizio, ma essa era mascherata dai risultati ottenuti grazie alla bontà delle scelte politiche internazionali e interne fatte dall’Italia nell’immediato dopoguerra che aprirono la strada al miracolo economico e resero “possibile di porre mano alla costruzione dello ‘Stato del benessere’”. I profondi mutamenti sociali conseguenti (migrazioni dall’agricoltura all’industria, dalle campagne alle città, dal Sud al Nord, e distribuzione dei redditi squilibrata) hanno fatto esplodere crisi di diversa natura dalla fine degli anni 1960 al 1993 (squilibri di bilancia dei pagamenti e debolezze strutturali della lira, ’autunno ‘caldo’ sindacale, crescita dei prezzi petroliferi, attacco allo Stato da parte delle Brigate rosse e fine dell’egemonia democristiana). A seguito di questi eventi “Il sistema dei partiti operante in Italia ha manifestato tendenze a trasformarsi da strumento di intermediazione tra società politica e civile, in un complesso e chiuso apparato di raccolta e ‘difesa’ del consenso, come titolo per una capillare e articolata e spesso, a dir poco, assai impropria gestione del potere, ad ogni livello.

Il giudizio di Cossiga è che la situazione venutasi a creare era incoerente non solo con i desideri dei cittadini, ma anche con le esigenze di “vitale importanza nel momento in cui il nostro Paese si trovava a fronteggiare i problemi dell’evoluzione della integrazione europea, i cui termini degli eventi epocali del 1989-91 hanno profondamente mutatola domanda italiana di riforme che sale sempre più forte dalla società civile e che sembra oramai non solo dar voce ma ‘rabbia …. la lamentata inadeguatezza dei Governi e del Parlamento ad affrontare e a risolvere efficacemente e compiutamente i principali problemi del presente hanno condotto al graduale, netto distacco della gente dalle istituzioni, poiché è sfumata, appunto, agli occhi della gente, in una configurazione sempre più confusa e sempre più indistinta, l’immagine alta ed augusta dello Stato, di uno Stato che valga effettivamente a garantire l’ordinato svolgimento della vita civile e ad amministrare efficacemente la giustizia.

Il giudizio di Cossiga sul ruolo svolto dalla Magistratura nel precipitare della crisi, che ha sollevato il mio quesito, è molto severo, poiché afferma che “la giustizia dei giudici sia giustizia legale e non pretenda o sia costretta anche ad essere giustizia storica e politica”, come di fatto avvenne.

Il testo è composto da 50 pagine dattiloscritte ricche di considerazioni e richiami, dalle quali ho tratto solo alcuni concetti, dai quali emerge il filo conduttore della tesi di Cossiga che “la grande questione morale sollevata da Tangentopoli è effetto o sottende la grande questione istituzionale”. Le nostre sono istituzioni vecchie, inadatte ad affrontare la realtà sociale e geopolitica in rapida evoluzione che blocca il ritorno del Paese sulla strada dello sviluppo.

La sua terapia è “ricominciare a fare politica e cioè porre al centro dell’attenzione della gente certo i problemi della criminalità, politica, organizzativa e comune, ma anche i problemi della finanza pubblica, della previdenza e della sanità, i problemi del nostro entrare o uscire dall’Europa, quelli di una politica estera quasi tutta da reinventare, i problemi della riedificazione di una società libera moderna e aperta con uno Stato moderno ed efficiente”.

Si può essere ancora oggi insensibili a questa utopia cossighiana così chiaramente espressa oltre un quarto di secolo fa?


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