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Il G20, l’Afghanistan e le mosse di Russia e Cina. Scrive Marsilli

Di Marco Marsilli

Quella di Mario Draghi è una buona idea: serve al più presto un G20 sull’Afghanistan. Ma non sarà facile. L’analisi dell’amb. Marco Marsilli, consigliere scientifico della Fondazione Icsa, già rappresentante permanente presso il Consiglio d’Europa e direttore centrale alla Farnesina per le questioni globali e i processi G8/G20

Sin dall’indomani della caduta di Kabul, il presidente del Consiglio Mario Draghi si è fatto deciso interprete della convocazione di un G20 straordinario, interamente consacrato alla questione afghana, da svolgersi in settembre, vale a dire con circa un mese di anticipo rispetto al vertice ordinario di quel foro, fissato per fine ottobre.

La richiesta del nostro Capo di governo – ribadita con forza anche in occasione del recentissimo G7 “da remoto“ a guida britannica – è pienamente giustificata e andrebbe di conseguenza sostenuta con determinazione da tutte le forze politiche italiane.

E questo non solo per ragioni “di immagine”, secondo le quali avendo Boris Johnson fatto la sua (invero assai modesta, sul piano dei risultati) parte nel convocare l’assise più ristretta, quella cioè limitata alle potenze “occidentali”, l’attuale presidente in esercizio del G20 non poteva che agire corrispondentemente.

In questo caso appaiono decisamente prevalere le motivazioni “di sostanza”, in quanto una crisi delle dimensioni (nonché ripercussioni, nel breve come nel lungo periodo) di quella afghana esige necessariamente, per ottenere almeno una speranza di soluzione, il coinvolgimento di settori ben più ampi della comunità internazionale, settori che appaiono in effetti ben rappresentati dalla Membership del G20.

Ciò premesso, appare realistico sottolineare sin da subito gli ostacoli, non secondari, che una simile iniziativa è destinata ad incontrare. Essi attingono, in primo luogo, alla tempistica, essendo settembre il tradizionale mese di svolgimento a New York dell‘Assemblea delle Nazioni Unite, intenzionate – secondo le indicazioni che pervengono d’oltreoceano – a organizzare esse stesse un evento “extra ordinem” sull‘Afghanistan. Essendo evidente l’improponibilità di due conferenze di peso sullo stesso tema, a distanza di pochi giorni l’una dall’altra, si porrebbe a quel punto la scelta di quale privilegiare.

In secondo luogo, occorre tener conto della natura stessa del G20, foro in cui la pur praticata ricerca di soluzioni in qualche modo condivise, non ha mai impedito agli interessi nazionali di essere prospettati e affermati per così dire “a briglia sciolta”, senza esigenze di previa concertazione (esclusi, se vogliamo, i paesi anche membri del G7).
Ogni ricerca di compromesso viene del resto resa estremamente problematica, in ambito G20, dalla eterogeneità di situazioni politiche e di collocazioni geografiche, senza considerare un quadro di relazioni bilaterali spesso e volentieri assai critico.

A tale proposito si prendano in esame le, così come attualmente conosciute, posizioni di tre Paesi che il presidente del Consiglio giudica, del tutto correttamente, “determinanti” in vista di un G20 in grado di produrre risultati concreti.

Pakistan: si tratta, ad essere precisi, di un non-membro, ma la cui presenza appare scontata all’interno di quel gruppetto di Stati che, tradizionalmente, ogni presidenza associa ai “partecipanti di diritto”. Con la presa di Kabul e la fuga (in condizioni che ne sembrano sancire la morte politica) dell’ex presidente Ghani, autore nel corso del suo mandato di “pericolose” aperture nei confronti di New Delhi, Islamabad ha raggiunto un obiettivo da tempo perseguito mediante l’assistenza, militare e di altra natura, tradizionalmente concessa al movimento Talebano.
A proposito di quest’ultimo, da certi osservatori internazionali vengono effettuate distinzioni fra elementi “intransigenti” e “moderati”, in quanto tali più sensibili a modeste concessioni (quali la possibile costituzione di un governo afghano di transizione, aperto ad un paio di elementi esterni al movimento), aperture che andrebbero “compensate” dai Paesi occidentali con la prosecuzione di almeno una parte dei finanziamenti ora minacciati di “congelamento“.

Cina: anche Pechino si può annoverare fra i nettamente favorevoli alla nuova situazione afghana, soprattutto quanto per la rafforzata posizione nell’area del suo tradizionale alleato, il Pakistan. La Cina, che pure fornirà, presumibilmente, un attivo contributo al G20, non appare toccata da nessuno dei fattori di priorità (quali la messa in salvo dei propri connazionali e dei “collaboratori” afghani, la gestione dei flussi immigratori, la residuale presenza “infrastrutturale” aldilà del 31 agosto) che agitano ed angosciano ora come ora le Cancellerie occidentali. Di conseguenza, la sua politica di fondo sarà di “wait and see”, nella consapevolezza che – come del resto avvenuto in molti Paesi africani – le proprie disponibilità finanziarie e la propria tecnologia le consentiranno, se richiesto dalle circostanze, di riempire agevolmente il vuoto lasciato da paesi Ue e Nato.

Russia: la parola “Afghanistan” continua a suscitare a Mosca inconfessati incubi e paure, nel ricordo – mai estinto – dell’umiliante ritiro completato nel 1989. Così come Pechino, Mosca ha mantenuto aperta la propria Ambasciata a Kabul, dimostrando così di volere mantenere aperto un dialogo diplomatico istituzionale anche con la nuova dirigenza politica afghana. A differenza di Pechino, Mosca non può peraltro tollerare che il territorio afghano possa diventare un “santuario“ per l‘attività terroristica di movimenti radicali, diretta anche a minacciare la stabilità dei Paesi centro-asiatici, tradizionale (anche se sempre più contestata ) zona di interesse ed influenza della stessa Federazione Russa. Il ministro degli Esteri Lavrov è atteso in questi giorni a Roma e dopo i suoi incontri sarà possibile saperne di più.

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