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Riforma Cartabia vs riforma Bonafede. Lo spettro delle sanzioni

Di Angelo Lucarella

Parte delle forze politiche oggi al governo e che in passato siglarono il Contratto per il cambiamento del Paese non possono che trovarsi davanti ad un bivio politico-giuridico: riarmonizzare il sistema penale per non disattendere la direttiva europea oppure assumersi la responsabilità delle sanzioni comunitarie e delle procedure d’infrazione (se non già in itinere entrambe). L’analisi di Angelo Lucarella

Riforma obbligata o un’obbligata riforma? Cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia. L’Unione europea ha fissato sin dal 2016 che gli Stati membri devono impegnarsi sul fronte della “non regressione” giudiziaria penale.

Il principio di non regressione implica, sostanzialmente, che non si possano fare riforme dal riflesso o effetto volte all’abbassamento dei livelli complessivi di garanzia – protezione giuridica per come concepiti ed enunciati nella Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, nella Carta Fondamentale dei diritti europei, nel diritto internazionale.

A ciò aggiungendosi il ruolo insuperabile che svolge, già per il perimetro nazionale, la nostra Costituzione rispetto alla questione giurisdizionale: si pensi per un attimo, ad esempio, allo spartito composto dalle note dell’art. 3 (eguaglianza) e art. 111 (giusto processo).

Qual è il problema di fondo della riforma Bonafede rispetto al quadro appena delineato?

C’è che l’art. 13 della direttiva europea n. 343/2016 (quest’ultima richiamata, espressamente, nella relazione della commissione Lattanzi) pone al centro della finalità comunitaria il fatto che gli ordinamenti di ogni Stato membro non possano normare sbilanciando le garanzie di trattamento tra colpevoli ed innocenti, tra vittime e presunte tali, ecc.

Allora la struttura di riforma che la ministra Cartabia intende (presumibilmente) portare avanti si poggia sul forte connubio tra civiltà giuridica e civiltà sociale: due facce della stessa medaglia che non altro si alimentano del dettato costituzionale (in primis).

Se il governo di Mario Draghi ha approvato all’unanimità gli emendamenti governativi (in relazione al disegno di legge A.C. 2435) significa che c’è dell’indifferibile sul piano politico nazionale ed europeo; ciò tenuto conto che a Palazzo Chigi ci sono ministri espressione di forze politiche di quel famoso esecutivo gialloverde (ex Contratto di governo Lega-M5S) partoriente all’epoca, per l’appunto, la riforma della prescrizione penale oggi in vigore.

Immaginiamo tra qualche anno, lasciando in vigore il sistema normato dalla legge n. 3/2019, dinanzi a cosa potremmo trovarci?

Un ingolfamento totale del sistema giudiziario penale senza considerare tutto il peso-onere che graverà sulle spalle dei P.M. che si vedranno, per forza di cose, coinvolti in un vorticoso, spiralizzante, perenne e continuo “studio del già studiato” per discutere questioni anche a distanza di venti anni (quando magari il presunto reo ha già cambiato approccio sociale e, quindi, con l’effetto che l’eventuale fine rieducativo della pena verrebbe, in concreto, bypassato e superato dal recupero dell’individuo).

La traduzione politico-giuridica su cui si basa l’articolata struttura della relazione Lattanzi, in buona sostanza, pone all’evidenza come la riforma dell’allora ministro Bonafede, con cui è stata modificata la disciplina della cosiddetta “prescrizione penale”, si presti dall’inizio a non poche storture e disarmonie giuridiche.

Una riforma, quella bonafediana, allontanatasi di fatto dal quadro del giusto processo di cui all’art. 111 della Costituzione e dal complesso di garanzie del cosiddetto equo processo (art. 6 della Convezione europea dei diritti dell’Uomo). Tra conseguimento dell’accertamento penale e dignità del soggetto sottoposto a processo ci si ritrova ad oggi, interpretando i punti nevralgici della relazione Lattanzi, a dover fare i conti con una deriva della parità di trattamento rispetto alla ragionevole durata del procedimento penale.

Quel che pare chiaro, pertanto, è che parte delle forze politiche oggi al governo e che in passato ebbero a siglare il Contratto per il cambiamento del Paese non possono che trovarsi davanti ad un bivio politico-giuridico: riarmonizzare il sistema penale per non disattendere la direttiva europea oppure assumersi la responsabilità delle sanzioni comunitarie e delle procedure d’infrazione (se non già in itinere entrambe).

Non dimentichiamo che, quanto a responsabilità politico-amministrativa, la nostra Costituzione è granitica: l’art. 95, co. 2, ci ricorda che “I Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri”. Per questo motivo, qualora l’Europa dovesse sanzionarci (posto che, si ribadisce, non l’abbia già fatto), occorre prevenire per curare un fatto patologico del nostro ordinamento penale.

Non si può esporre il Paese al rischio di processi a vita nonché alla dissipazione dei livelli di civiltà conquistati in anni di sacrifici, sofferenze e di innocenti posti, prima, sotto la luce della gogna mediatica e, poi, agognanti per lunghissimi processi.

Un fatto è certo: per assicurare giustizia alle vittime e pene per gli illeciti non si può andare oltre il perimetro di quel che il principio di ragionevole durata dei processi impone a tutti noi.

Si chiami prescrizione o improcedibilità penale (termine utilizzato per la riforma Cartabia) purché si consideri invalicabile il confine predetto: ne va della dignità del sistema Paese e dei cittadini.

Le due direttrici della riforma Cartabia ci impongo, oggettivamente, una riflessione sul come il trattamento disumanamente sproporzionato nello spazio e nel tempo per la persona umana (si badi bene, innocente fino a passaggio in giudicato di una eventuale sentenza di condanna) si tramuti, in sostanza, in una sorta di tortura che, tra l’altro, la Cedu stessa, all’art. 3, vieta senza se e senza ma.

Diceva Montesquieu “Giustizia ritardata è giustizia negata”. Figuriamoci quando si è presunti colpevoli a vita.

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