Come fa il Psg a comprare Donnarumma e ingaggiare Messi mentre già paga il salario di Mbappé e ammortizza il costo di Neymar? Come riesce il Chelsea a spendere 120 milioni per Lukaku o il City 117 per un Grealish dalle statistiche appena sufficienti? Risponde Gianluca Calvosa, presidente di Formiche e fondatore e Ceo di Standard Football
A leggere i titoli sportivi sembra che alcune squadre di calcio siano immuni al Covid, che grazie ad uno speciale vaccino per club possano continuare a spendere e spandere in barba ad ogni regola o razionale economico mentre le squadre minori (e tra queste le italiane) restano inchiodate al palo di un una crisi profonde e irreversibile destinata a ridimensionare le aspettative dei tifosi. Come fa il Psg a comprare Donnarumma e ingaggiare Messi mentre già paga il salario di Mbappé e ammortizza il costo di Neymar? Come riesce il Chelsea a spendere 120 milioni per Lukaku o il City 117 per un Grealish dalle statistiche appena sufficienti? Per rispondere occorre innanzitutto allargare il perimetro di analisi e poi applicare i giusti distinguo.
Partiamo col dire che l’industria del calcio, al pari del comparto turistico e dello spettacolo dal vivo, ha preso dal Covid una mazzata senza precedenti. La pandemia ha messo in luce i profondi squilibri preesistenti (eccesso di indebitamento, strutturale sottocapitalizzazione e profonda inefficacia di gestione) accelerando una crisi i cui presupposti erano già in campo da almeno dieci anni. La maggior parte dei club delle leghe maggiori spende troppo per possibilità offerte dal bilancio sia in stipendi (su base aggregata, la Bundesliga è l’unica tra le top 5 ad applicare livelli salariali sostenibili), sia in cartellini (mentre le analisi in letteratura scientifica hanno dimostrato il legame virtuoso tra spesa in salari e livello di successi sportivi, nessun nesso diretto è stato ancora dimostrato tra la spesa in acquisto di calciatori e le vittorie in campo).
Tutto ciò era vero prima del Covid e lo è ancor più oggi nonostante un significativo ridimensionamento del calciomercato (siamo passati dal record di cessione stagionale di 240 milioni di Neymar nel 2018 ai poco più di 100 per Lukaku e Grealish). Cosi, anche lo squilibrio di spesa tra grandi e piccoli club aumenta, nonostante lo short di liquidità i bilanci sopportano i prestiti meglio degli acquisti, perciò crescono le cessioni mascherate da prestiti. In generale si scambiano molti meno calciatori, ma i pochi campioni, o presunti tali, finiscono inevitabilmente a Manchester, Londra, Parigi e Madrid (ormai anche Barcellona sembra uscita dal giro dei big spender). Di nuovo, perché? I fattori sono diversi, proviamo a metterli in fila:<
- Si tratta di club con volume d’affari di molto sopra la media (comunque sempre sopra i 500 milioni) e con strutture finanziarie sottoposte a maggior leva in virtù di una superiore capacità di accesso al mercato dei capitali anche perché possono contare su asset immobiliari. Insomma, hanno maggiore liquidità anche se generata a debito.
- Le proprietà dei club predatori è di solito nelle mani di soggetti con capacità di spesa significativa – beyond the money – per i quali il calcio rappresenta un tassello di interessi ben più ampi. Per questi proprietari le operazioni che sarebbero insostenibili nel perimetro del bilancio della società sportiva risultano marginali e profittevoli nel contesto allargato del giro di affari in cui sono inseriti (è questo il caso di Chelsea e Psg).
- L’attuale contesto regolamentare lascia margini di manovra più ampi. Il Financial Fair Play che è stato sospeso per evidente inapplicabilità indotta dal Covid, ma anche per una inevitabile revisione, apre praterie inattese ai pochi club di cui sopra alimentando ulteriormente il divario tra piccole e grandi.
- Poi ci sono i distinguo di tipo logico. Nel caso del Psg, si aggiunge la concomitanza con il mondiale del Qatar con il tentativo della famiglia Al Thani di incardinare il calcio nella strategia del paese di diversificazione dagli idrocarburi. Invece, per i club inglesi, certe spese rispondono alle nuove regole imposte dalla Brexit che prosciugano il bacino di campioni cui possono attingere, e forse anche con l’esigenza di ricucire lo strappo con la tifoseria generato dal maldestro tentativo della Superlega, che mirava a raggiungere l’oligopolio per statuto.
In definitiva appare evidente come sia in atto una esplicita strategia di accaparramento delle risorse volta a concentrare le risorse disponibili verso un numero ridotto di club (e quindi a vantaggio di pochi calciatori superpagati) ancor più di quanto non avvenisse in precedenza. Più o meno quello si proponeva di fare la Superlega, appunto.
La strategia predatoria avrà successo? Questo dipenderà dalla capacità di trasformare la spesa in risultati sportivi, il che nel calcio non è scontato, ma anche dalla capacità delle istituzioni di garantire sostenibilità ed equilibrio all’industria e competitività allo sport. Nel frattempo abituiamoci a ridimensionare le pretese di mercato dei club nostrani.
Per creare valore ci toccherà finalmente investire nello sviluppo dei giovani calciatori italiani. Una fabbrica del talento efficiente, moderna e in grado di creare valore economico e sociale.