La strada per rimettere ordine in Mps è lunga ed impervia. L’istituto si è progressivamente trasformato da banca della senesità nello strumento finanziario della politica di sostegno alle ambizioni nazionali della sinistra… Il commento di Giuseppe Pennisi
Domani mercoledì 4 agosto, il ministro del Tesoro e delle Finanze Daniele Franco riferirà in Parlamento sulle ultime vicende del Monte dei Paschi di Siena (Mps), in particolare sulla proposta d’acquisto da parte di Unicredit che tanto clamore ha suscitato. Risponderà probabilmente alla domanda, pertinente, del ministro per la Semplificazione e Pubblica Amministrazione, Renato Brunetta: Perché proprio adesso? Mentre si sta iniziando l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) sul cui cronoprogramma si è già in ritardo, in gran misura a ragione del travaglio del Movimento 5 Stelle (M5S). Ci sono ragioni tecniche e politiche.
Sotto il profilo tecnico, allo stress test pubblicato dalla Banca centrale europea (Bce) al termine della settimana scorsa, Mps è risultata l’ultima su cinquanta istituti di credito esaminati dalla Bce. Ciò vuol dire che al più piccolo scossone nel mondo della finanza, Mps (di cui i maggiori azionisti sono i contribuenti italiani) farebbe la fine di Lehman Brothers, con danni per tutti. Inoltre, in base agli accordi con l’Unione europea, lo Stato deve uscire dal capitale dell’istituto entro il 31 dicembre 2021; è ipotizzabile che una trattativa per l’acquisto di Mps, o di parti dell’istituto, durerà qualche settimana o più verosimilmente qualche mese, se non altro per approntare appositi ammortizzatori sociali per il personale eccedentario. Sempre, sotto il profilo tecnico, per chi è interessato ad un acquisto, questo è il momento migliore. Pure in quanto non ci sono altri pretendenti alle nozze con un istituto che negli ultimi anni ha bruciato due aumenti di capitale. Solo Unicredit ha le dimensioni appropriate per prendersi la quarta banca del Paese con un attivo di 150 miliardi e oltre 20mila dipendenti. Ma a Piazza Cordusio non hanno nessuna intenzione di accollarsi l’intera banca. Anche con tutte le doti fiscali e non che il governo ha proposto negli ultimi mesi. L’istituto è troppo grande e scassato da gestire. Unicredit è, infatti, una banca internazionale. Non un istituto di assistenza e beneficienza.
Sotto il profilo politico, è in corso una partita tra le varie correnti del Partito democratico (Pd) che ha tra i tanti aspetti proprio Siena, dalla fine della seconda guerra considerata una “roccaforte rossa”, ma ora diventata “contendibile”. Non pochi senesi hanno considerato sgarbato il “romano” Pier Carlo Padoan che, dopo essere stato ministro dell’Economia e delle Finanze dei governi Renzi e Gentiloni, si è fatto eleggere in Parlamento ma alla prima occasione ha lasciato l’incarico di rappresentare il territorio per assumere quello più lucrativo della presidenza di Unicredit e che ora torna a Siena per proporre una “spezzatino” di Mps, corredato da circa 8-10.000 “esuberi” di cui circa 5-6.000 incentivati da pensionamenti e prepensionamenti. Ancora meno elegante è che la successione al seggio che fu di Padoan viene proposta a Enrico Letta, il quale, all’interno del Pd non è mai stato sodale di Renzi (e di Padoan). La vicenda è indubbiamente caratterizzata da conflitti d’interessi come mai visti: potrebbero essere in parte affievoliti ove il Segretario del Pd rinunciasse a competere per un seggio (quello di parlamentare di Siena) che gli viene presentato come “blindato” ma che forse tanto sicuro non è.
Tornado agli aspetti tecnici, il ministero dell’Economia e delle Finanze, che possiede il 64% di Mts, è in un vicolo cieco: deve uscire dal capitale entro la fine dell’anno ma l’unico potenziale acquirente che si è presentato è presieduto da quello che è stato, in tempi recenti, alla guida del dicastero di Via Venti settembre per quattro anni. La gestione pubblica di Mps non ha certo brillato. Si sono alleggerite le sofferenze che, a fine del 2017, pesavano per oltre il 16% (quelle nette) degli impieghi ma le cessioni di crediti hanno comportato perdite per quasi 5 miliardi di euro dal 2017 a fine 2020.
Un giornalista economico specializzato in banche e finanza, Fabio Pavesi, a lungo con Il Sole 24 ore ha sottolineato che nulla è stato fatto sulla gestione operativa della banca. Anzi. Sotto la gestione pubblica, infatti, la banca senese ha perso 1,1 miliardi di ricavi, ossia quasi il 30% delle entrate, un record assoluto nell’intero sistema bancario italiano.
La strada per rimettere ordine in Mps è lunga ed impervia. L’istituto si è progressivamente trasformato da banca della senesità (in quindici anni la Fondazione riversò sul territorio quasi due miliardi di euro) nello strumento finanziario della politica di sostegno alle ambizioni nazionali della sinistra. In questa direzione si mosse, nel 1999, l’acquisizione della Banca del Salento, un istituto privato pagato 2.500 miliardi in un’asta al rialzo con il San Paolo di Torino. Inoltre, ora la Fondazione chiede i danni per le perdite subite per l’acquisizione di AntonVeneta e per i due aumenti di capitale bruciati successivamente. In quegli anni, la Fondazione era il socio di controllo della banca e il suo Cda ha avvallato tutte le iniziative a partire dall’acquisto di AntonVeneta, presentata come un grande successo.