Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

Quella certa idea dell’Italia di Cossiga: tutelare l’interesse nazionale

Cosa potrebbe suggerire oggi l’esperienza di Cossiga per perseguire l’interesse nazionale? La relazione di Mario Caligiuri, presidente della Società italiana di intelligence, in occasione del Premio “Francesco Cossiga per l’intelligence” assegnato a Paolo Savona e promosso da Socint

La diffusione della cultura scientifica della sicurezza è la missione della Società Italiana di Intelligence che attraverso il Premio “Francesco Cossiga per l’intelligence” celebra probabilmente il momento più significativo. Dopo Carlo Mosca, quest’anno il Premio è stato assegnato a Paolo Savona.

Non solo l’incombente pandemia ma anche le due recenti vicende di cronaca dell’attacco hacker al sito della Regione Lazio e della conquista di Kabul da parte dei Talebani dimostrano come la sicurezza, e quindi l’incertezza, caratterizzi sempre di più il mondo contemporaneo.

La prima vicenda conferma l’insostenibile insicurezza del web, mentre la seconda potrebbe rapidamente allungare le ombre del terrorismo di nuovo verso l’Europa.

La sicurezza è l’ambito centrale che legittima l’esistenza dello Stato. In tale quadro, l’intelligence acquista un valore fondamentale, raccogliendo informazioni per consentire ai decisori pubblici di assumere le scelte più adeguate per salvaguardare la vita e il benessere dei propri cittadini.

L’intelligence è una risorsa fondamentale per i rappresentanti delle Istituzioni. Pertanto un uomo di Stato non può che essere un uomo di intelligence. E nell’Italia del secondo dopoguerra uomo di intelligence su tutti probabilmente è stato proprio Francesco Cossiga.

Cossiga e l’interesse nazionale

Nella sua lunga vita istituzionale, Cossiga dimostra come al centro della sua azione politica ci sia sempre stato l’interesse nazionale, a cominciare dalla sua prima esperienza di governo, quando nel 1966 da sottosegretario alla Difesa venne incaricato dal presidente del Consiglio Aldo Moro sia a sovrintendere sulla rete “Stay Behind” e sia all’apposizione degli omissis sul rapporto Manes, che riguardava il “Piano Solo”. In questo periodo, sempre su delega del capo del governo, seguì, insieme a Roberto Tremelloni, la trasformazione del Sifar in Sid, che venne posto alle dirette dipendenze del ministro della Difesa.

Nel IV Governo Moro diventa ministro per l’Organizzazione della pubblica amministrazione e poi, in seguito alle dimissioni di Luigi Gui per lo scandalo Lockheed, viene nominato ministro dell’Interno.

In tale ruolo affronta con grande decisione due straordinarie emergenze: il terremoto del Friuli e il fenomeno del terrorismo.

Il terremoto del Friuli è probabilmente l’unico evento sismico che nel nostro Paese abbia registrato una ricostruzione efficace. Il 7 maggio 1976 il presidente del Consiglio Moro e il ministro dell’Interno Cossiga nominano il sottosegretario all’Interno Giuseppe Zamberletti commissario straordinario con pieni poteri. Cossiga si manterrà sistematicamente in contatto con lui.

Affronta con grande fermezza, e grandi contestazioni, i disordini di piazza e l’ondata del terrorismo che dal 1976 al 1978 è in crescendo continuo. Il 18 gennaio 1976 era stato riarrestato Renato Curcio, determinando l’avvento dell’ala militarista guidata da Mario Moretti, che compie il primo delitto premeditato delle Brigate Rosse nel giugno del 1976 con l’uccisione del procuratore generale della Corte d’appello di Genova Francesco Coco, insieme al poliziotto Giovanni Saponara e al carabiniere Antioco Deiana.

Nel 1977 è uno dei protagonisti, insieme a Giulio Andreotti, Moro e Ugo Pecchioli, della prima legge sui Servizi; un fatto importante, sollecitato da una sentenza della Corte costituzionale che invita a regolare il segreto di Stato, e che determina per la prima volta norme approvate dal Parlamento in questo delicato settore.

Affronta l’attacco più alto al cuore dello Stato, venendo sconfitto: il 16 marzo 1978 le Brigate Rosse rapiscono Moro che viene ucciso il 9 maggio successivo. Nei 55 giorni più tristi della Repubblica, Cossiga si pone sulla linea della strenua difesa delle istituzioni, ricevendo poi durissime accuse dalla famiglia del presidente della Democrazia cristiana.

Due giorni dopo l’uccisione di Moro, Cossiga si dimette, dando stabilità alla fragile democrazia italiana, poiché consente al governo, che era stato votato meno di due mesi prima, di continuare la sua azione.

Esaurita la stagione di collaborazione con il Partito comunista italiano, l’anno dopo viene chiamato a presiedere due esecutivi che gradatamente riportano il Partito socialista italiano nell’area di governo, inaugurando di fatto lo schema politico che si allargherà al pentapartito, sostanzialmente prevalente fino al 1992.

Mentre è presidente del Consiglio, il Parlamento approva la legge che tre anni dopo consentì l’installazione degli euromissili a Comiso, secondo alcuni una tappa fondamentale per la disgregazione dell’impero sovietico.

Una decisione di grande coraggio e dimensione strategica, maturata in uno scontro frontale in Parlamento con il Pci, che, qualche mese dopo, avrebbe proposto la messa in stato di accusa di Cossiga per rivelazione di segreto d’ufficio utilizzando la circostanza che il figlio del ministro Carlo Donat Cattin, Marco, era ricercato in quanto terrorista di Prima Linea e ipotizzando che il presidente del Consiglio avesse informato il padre.

Durante il suo secondo governo, si verificano le stragi di Ustica e di Bologna. Cossiga era per legge il capo dei Servizi e anni dopo dette una lettura di entrambe le vicende in disaccordo con alcune sentenze giudiziarie.

Il secondo governo Cossiga cade il 27 settembre 1980 per un solo voto, a causa della mancata approvazione della legge finanziaria. Nell’occasione si verificò una forte opposizione esterna della Fiat contraria all’ingresso della casa automobilistica giapponese Nissan nel mercato italiano, prevista nel provvedimento proposto dall’esecutivo.

Eletto presidente del Senato nel 1983, il 24 giugno del 1985 diventa al primo scrutinio, a 57 anni, il più giovane capo dello Stato. Dopo il novembre del 1989, comprende che il sistema politico nazionale è superato ed ha la capacità di guardare oltre il muro. Sono gli anni delle picconate. Diceva: “Non sono pazzo, faccio il pazzo per farmi ascoltare”.

Nel 1991 invia un messaggio alle Camere per evidenziare la necessità di una grande riforma costituzionale per consentire al Paese di affrontare la nuova dimensione geopolitica. Rimane inascoltato. Il 25 aprile 1992 si dimette, due mesi prima della scadenza del mandato.

Da senatore a vita concorre a creare le condizioni per superare il bipartitismo imperfetto che aveva segnato la Prima repubblica, favorendo l’elezione a presidente del Consiglio di Massimo D’Alema, il primo e finora unico ex comunista che ha guidato un governo italiano e che schierò risolutamente il Paese per l’intervento nel Kossovo.

In questo periodo, prova ad approfondire le ragioni del terrorismo politico che aveva insanguinato il Paese e che lui aveva combattuto senza cedimenti. Sono gli anni in cui cerca di capire le ragioni delle scelte estreme di migliaia di giovani, per motivazioni che, dopo decenni, sono in gran parte ancora irrisolte, legate alle ingiustizie sociali, ai limiti della democrazia, alla natura del potere.

Sei mesi dopo avere lasciato il Quirinale, il 25 novembre 1992, va a trovare in carcere a Rebibbia l’ideologo delle Brigate Rosse Renato Curcio. Ha poi rapporti epistolari con Toni Negri, Mario Moretti, Germano Maccari, Marco Barbone, Roberto Sandalo, Prospero Gallinari. Al brigatista Fabrizio Melorio scrive: “In fondo mi sento anche un po’ ‘colpevole’ della tua prigionia, essendo stato uno di quelli che hanno combattuto quella guerra, e per di più per essermi trovato dalla parte dei vincitori”.

I rappresentanti della lotta armata da avversari da abbattere a ogni costo diventano persone da rispettare per la loro dignità e da recuperare alla comunità democratica. In base ai differenti momenti storici, Cossiga utilizza entrambe le categorie di Carl Schmitt: hostis (nemico pubblico da abbattere ad ogni costo perché mina alla radice l’esistenza della controparte) e inimicus (nemico personale da combattere attraverso le regole e che va compreso).

Infine, in linea con le sue dichiarate e note passioni, si impegna nella promozione della cultura dell’intelligence del nostro Paese, mettendo in rilievo l’importanza della sicurezza per tutelare l’interesse nazionale. E lo fa avanzando proposte di legge per la riforma dei Servizi, istituendo master e corsi di studio universitari, scrivendo libri ed articoli, partecipando a conferenze come quella del Forum Tal del 2006 in cui, illustrando la sua idea ampia di intelligence, evidenzia la fondamentale dimensione economica.

“Una certa idea dell’Italia” nel XXI secolo

In modo molto approssimativo, potremmo distinguere tre fasi su come Cossiga ha declinato l’interesse nazionale. La prima, che va dal 1948 al 1989, è quella dell’anticomunismo e della lotta al terrorismo. La seconda, che si sviluppa dal 1989 al 2001, in cui contribuisce a realizzare l’alternanza delle culture politiche nel governo del Paese. La terza fino al 2010, nella quale si impegna a mettere in evidenza l’importanza dell’intelligence e del riequilibrio dei poteri istituzionali in modo da rendere efficiente la democrazia italiana per affrontare le sfide del nuovo millennio.

Cosa potrebbe suggerire oggi l’esperienza di Cossiga per perseguire l’interesse nazionale? Il quadro è totalmente mutato ma i quattro “terreni delle riforme” che lui aveva evocato nel messaggio alle Camere del 1991 sono ancora di scottante attualità. Li riporto: forme di governo e sistemi elettorali (basti pensare al referendum costituzionale promosso nel 2016 da Matteo Renzi, alla necessità di una nuova riforma elettorale per rispondere alla riduzione dei parlamentari decisa con il referendum del 2020, tema sul quale nessuno interviene); autonomie (la vicenda pandemica ha confermato la dannosa e inefficiente articolazione dei poteri tra governo, Regioni e Comuni); ordine giudiziario (dal 1992 i rapporti tra politica e giustizia sono centrali e irrisolti, come la recente vicenda Palamara conferma); interessi diffusi e interessi collettivi (secondo Cossiga, i cambiamenti sociali richiedono l’articolazione di “nuovi diritti e nuovi doveri”. Scriveva: “in questa categoria di “nuovi diritti” […] deve trovare collocazione e riconoscimento anche quello di una corretta informazione, come corollario inscindibile della libertà di espressione”. Cossiga anticipa quindi quella che, secondo me, è indubbiamente l’emergenza democratica ed educativa di questo tempo: la disinformazione).

Nel suo ultimo libro del 2010, scritto insieme ad Andrea Cangini, affronta il tema urticante delle mafie, ipotizzando uno scenario nazionale dove potrebbero essere indistinguibili politica, economia e criminalità.

Allora “una certa idea dell’Italia”, per tutelare l’interesse nazionale, non può che partire dai nostri punti di forza che sono conseguenza della storia e della geografia del nostro Paese: la cultura da una parte e il mare dall’altra.

E questo affrontando i temi di fondo, costantemente elusi, del decremento demografico e dell’abbassamento progressivo del livello di istruzione. Temi complessi che hanno bisogno di tempi lunghi mentre le classi dirigenti sono storicamente caratterizzate dallo “sguardo corto”.

Appunto per questo, è particolarmente attuale il pensiero di chi come Cossiga sapeva pensare in grande e guardare lontano.

 

×

Iscriviti alla newsletter