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La prescrizione non è quello che vi raccontano

Di Alessandro Gentiloni Silveri

L’avvocato penalista Alessandro Gentiloni Silveri spiega il grande equivoco che spesso circonda l’istituto della prescrizione, che poco ha a che fare con il processo e molto con il reato. La riforma Cartabia coglie il segno perché istituisce una inedita ‘causa di improcedibilità’, di matrice e disciplina processuale, salvaguardando gli obblighi internazionali ed evitando l’estinzione tout court dell’illecito. Ma non mancheranno problemi attuativi

La riforma del processo penale predisposta dalla ministra Marta Cartabia si avvia ad un rapido percorso di approvazione parlamentare, favorito anche da spinte indirette dell’Unione Europea. La sua gestazione è stata assai travagliata, soprattutto per le contrapposizioni che si sono sviluppate attorno all’istituto della prescrizione del reato. La ferocia della battaglia politica ha nuociuto al dibattito, distorcendo la comprensione degli autentici cardini tecnico-giuridici di questa delicata normativa e, soprattutto, dei suoi spazi di miglioramento. Ne sono derivati significativi equivoci concettuali, che il testo attualmente in discussione presso le Camere tenta di dissipare.

Due schieramenti si sono contesi il campo. L’uno, grossolanamente definibile dei ‘giustizialisti’, propugna l’idea che la prescrizione sia null’altro che un veicolo di impunità per gli autori di reati anche gravi, i quali, pur tempestivamente assoggettati a procedimento penale e, magari, condannati nei gradi di merito, scansano sacrosante condanne. Centrale è la constatazione per cui la macchina giudiziaria penale -salvi i riti alternativi- non risulta quasi mai in grado di completare tutti i gradi di giudizio nel limitato termine assegnato ai delitti puniti con pena inferiore a sei anni di reclusione; a tacere dei reati contravvenzionali, falcidiati in un tempo massimo ancora minore. Su queste premesse, i giustizialisti portano avanti una difesa a spada tratta della ‘riforma Bonafede’ (l. 3/2019) secondo cui, dopo la sentenza di primo grado, la prescrizione sospende definitivamente il suo decorso.

All’opposto si collocano le tesi che animano, sempre in definizione grossolana, i ‘garantisti’, i quali denunciano il contrasto dell’attuale normativa con il principio costituzionale della durata ragionevole dei procedimenti penali. Sulla base dell’assunto per cui le Corti sono propense a trattare prima i procedimenti che sono prossimi a prescriversi, hanno evocato catastrofici scenari (“l’ergastolo processuale”, e così via) in cui l’imputato rimane recluso senza scampo in un processo che, una volta rimossa la possibilità di prescrizione, potrebbe non finire mai. Avversano quindi la riforma del 2019, in quanto avrebbe cancellato l’unico strumento per affermare i diritti costituzionali del cittadino-imputato sospeso nel limbo di un’imputazione eternamente giudicabile.

Il confronto dà per scontato che tra prescrizione del reato e durata (ragionevole) del procedimento esista una relazione biunivoca, assegnando alla prima il compito di propulsione e, nello scenario patologico, chiusura definitiva del secondo. Ed è qui si annida un pericoloso fraintendimento sulla realtà normativa, in quanto l’istituto della prescrizione non nasce nel contesto processuale, né si propone di garantire la ragionevole durata dell’accertamento giudiziale. La prescrizione sorge storicamente, e si colloca oggi, nell’ambito del diritto penale sostanziale, e non già processuale, come segnala –in primis e soprattutto- la sua regolamentazione nel codice penale, nell’ambito delle ‘cause di estinzione’ del reato (e della pena: rilievo sempre ignorato dai garantisti).

Conosciuta in pressoché tutti gli ordinamenti liberali, la prescrizione contribuisce a regolare il rapporto tra il trascorrere del tempo ed il diritto (nel nostro caso) punitivo, sancendo il principio per cui l’inerzia dello Stato nel giudicare definitivamente un reato, dopo un determinato lasso temporale, comporta la caducazione dell’illecito stesso (e non già del processo necessario per accertarlo).

È ben vero che l’istituto soddisfa la necessità di impedire che il consociato, quand’anche responsabile di gravi reati, viva eternamente sotto la spada di Damocle del possibile avvio di un procedimento a suo carico. Ed è altrettanto vero che, dal punto di vista etico, nel bilanciamento di interessi contrapposti tra doverosa punizione di un fatto illecito e pacificazione sociale la meritevolezza di pena del reo si affievolisce fino ad abolirsi, ove la comunità dimostri di disinteressarsi, o di non essere in grado di interessarsi, del reato per lungo tempo. Risulta quindi del tutto ragionevole che l’ordinamento preveda un periodo trascorso il quale quell’antico illecito non si possa più evocare in un giudizio che inizi da zero.

Tuttavia, la spada di Damocle in questione non è quella dell’accertamento processuale già avviato, né può esserlo.

Colgono allora nel segno quanti evidenziano l’aberrazione per cui ogni anno centinaia di migliaia di procedimenti penali, magari già sentenziati in sede di merito, vadano in fumo perché il sistema non è in grado di trattarli nei ristretti tempi dell’estinzione del reato.

Aberrazione con molte sfaccettature: economica, perché lo Stato spende cifre enormi per instaurare e portare avanti procedimenti che poi evaporano; politica, perché non di rado la prescrizione cala su dibattimenti aperti, quando la ‘ferita sociale’ determinata dal reato sta rivivendo, più dolorosa che mai, nell’accertamento giudiziale; di sistema, perché la quasi certezza della prescrizione spinge i Giudici a forzature interpretative per ‘salvare’ processi in odore di prescrizione ed alimenta tattiche dilatorie da parte di difensori disincentivati ad approfondire il merito delle vicende; general-preventiva, perché induce la sensazione di quasi certa impunità; politico-criminale, perché si risolve in una depenalizzazione occulta, iniqua e sperequata (variando con l’efficienza della singola sede giudiziaria) di intere categorie di reati. Infine, se davvero la prescrizione servisse a garantire un principio di rango costituzionale, la previsione della imprescrittibilità dei reati puniti con l’ergastolo (pacifica da lustri) dovrebbe essere considerata incostituzionale.

Rifiutare che l’irragionevole durata del procedimento penale determini l’estinzione del reato non significa affatto rinunciare a porre un termine al processo, né condona prassi lassiste in questo senso. Al contrario, rimane prioritaria l’esigenza di garantire a chiunque venga accusato di un reato -così come alla vittima dello stesso ed all’intera comunità sociale- di venire giudicato in tempi ragionevoli, se del caso prevedendo appositi meccanismi di compensazione ove il procedimento si dilunghi.

Il testo della riforma Cartabia recepisce lodevolmente questa dicotomia. Da un lato, va oltre la riforma del 2019 sancendo la ‘cessazione definitiva’ del corso della prescrizione con l’emissione della sentenza di primo grado. Al tempo stesso, istituisce una inedita ‘causa di improcedibilità’, di matrice e disciplina processuale, se i giudizi di impugnazione (appello e cassazione) non si concludono entro termini ragionevoli (circa due anni e un anno rispettivamente, prorogabili).

Così facendo, il legislatore salvaguarda gli obblighi internazionali del Paese rispetto alla ragionevole durata dei procedimenti penali e, al tempo stesso, esclude il ricorso (seppure solamente in parte: la prescrizione continua ad incidere su procedimenti aperti, se matura prima della sentenza di primo grado) alla categoria giuridica dell’estinzione tout court dell’illecito per correggere eventuali storture dell’accertamento giudiziale.

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