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Dopo il rapporto Ipcc sul clima, è tempo di dialogo (e di decisioni). Scrive Clini

Un documento comune del G20 per concordare standard comuni di uso e gestione del territorio ai fini dell’adattamento ai cambiamenti climatici, e per aggiornare i programmi e gli impegni finanziari a favore delle economie più deboli e maggiormente vulnerabili potrebbe rappresentare la base di un accordo alla COP26 che vada oltre il Green Climate Fund e coinvolga tutte le grandi istituzioni finanziarie mondiali. L’analisi di Corrado Clini, già ministro dell’Ambiente

Il G20 Ambiente del 20 luglio scorso era stato preceduto e “accompagnato” dalle inondazioni in Germania, in Cina, in India e dal massiccio scioglimento dei ghiacciai della Groenlandia: un vero e proprio avviso della natura ai grandi della terra, peraltro anticipato e aggiornato dai rapporti delle agenzie governative Usa (Noaa e Nasa) , che anche in piena “era Trump” mettevano in evidenza la relazione tra concentrazione di CO2 in atmosfera, aumento della temperatura media del pianeta e crescita di intensità e frequenza degli eventi climatici estremi.

Il rapporto di Ipcc reso pubblico il 9 agosto “piove sul bagnato” e rende più evidente l’urgenza di decisioni all’altezza della sfida. Decisioni che il G20 – occasione unica di dialogo tra i leader mondiali prima della COP26 di Glasgow – potrebbe cercare di preparare o almeno facilitare.

Purtroppo, nonostante il grande impegno dell’Italia, le conclusioni del G20 Ambiente hanno riproposto i linguaggi “rituali”-  inclusa la convergenza sull’accordo di Parigi – in merito alla priorità della sfida dei cambiamenti climatici e delle politiche necessarie per affrontarla, ma non hanno indicato un percorso per adottare misure condivise a livello globale.

È stato certamente rilevante il riconoscimento, in particolare da parte degli Usa, della stretta relazione tra energia e clima. Voglio ricordare nel 1998 (presidenza Clinton) gli Usa non avevano ratificato il Protocollo di Kyoto perché il Senato aveva stabilito che avrebbe messo a rischio la sicurezza energetica del Paese.

Sulla base di questo riconoscimento sarebbe utile individuare i punti di convergenza tra le scelte unilaterali per la decarbonizzazione, sia quelle già adottate da Eu, Cina, Giappone, Canada, Gran Bretagna, Corea, sia quelle annunciate da Usa e India in particolare. Avendo presenti tre necessari criteri di confronto:

– le emissioni attuali: Cina (27%), Usa (15%), Unione Europea(9,8%), India(7%), Russia (5%);
– le emissioni pro capite: i cittadini di Usa, Canada, Australia, seguiti di quelli della Russia, hanno consumi di energia prodotta da combustibili fossili fino a 3 a volte superiori alla media mondiale, e in particolare fino a 10 volte quelli dell’India e il doppio di Cina e Unione Europea.
– il “carbon budget” disponibile, ovvero la quantità di emissioni future di CO2 compatibili con la limitazione dell’aumento della temperatura tra 1,5 e 2°C, tenendo conto che le emissioni di CO2 accumulate in atmosfera almeno dalla metà del secolo scorso provengono per il 50% da Usa, Ue e Giappone.

Ovvero sarebbe utile promuovere la convergenza tra le diverse strategie di decarbonizzazione considerando che il diritto alla crescita economica deve essere contestuale alla riduzione delle emissioni ed all’allineamento progressivo delle emissioni pro capite a standard di efficienza e sicurezza energetica comuni (l’obiettivo 7 di Sustainable Development Goals “Universal Access to Sustainable Energy”) .

In questa prospettiva vanno considerate tutte le misure previste dalle singole economie, e in particolare Cina, Eu, India, Usa, per ridurre i consumi di prodotti petroliferi, carbone e gas naturale.

Ma, nello stesso tempo potrebbero essere individuate e condivise le misure per promuovere le “infrastrutture comuni”, fiscali e tecnologiche che possono facilitare l’accelerazione e il successo dei programmi di decarbonizzazione.

Tra queste potrebbero avere un ruolo decisivo nel breve periodo:

– il “carbon price” già indicato dal G20 Economia, che applicato su scala globale avrebbe l’effetto di ridurre la competitività dei combustibili fossili e lo sviluppo delle fonti e tecnologie alternative. Questo è forse il modo più efficace per accelerare il “phase out” progressivo di prodotti petroliferi, carbone e gas naturale nell’ambito dei programmi di decarbonizzazione pur nella diversità delle “circostanze nazionali” di accesso ai servizi energetici e dei modelli di consumo. E questo può essere anche il modo per orientare gli investimenti delle grandi istituzioni finanziarie (World Bank, Asian Development Bank, Asian Infrastructure Investment Bank, InterAmerican Development Bank), che hanno già deciso lo stop ai finanziamenti delle centrali a carbone e devono riprogrammare gli investimenti a favore delle altre infrastrutture per l’estrazione e il consumo dei combustibili fossili.

– l’interconnessione elettrica per rifornire i centri di consumo con elettricità prodotta in zone remote ad alta produttività solare o eolica. Per esempio l’Europa, che dipende oggi per oltre il 60% dalle importazioni di energia fossile, potrebbe approvvigionarsi di energia solare dall’Africa del Nord o di energia eolica dal mare del Nord e dalla costa atlantica dell’Africa del Nord. In questo modo potrebbero essere integrati, e sostituiti  progressivamente,  con reti elettriche ad alta capacità gli oleodotti, i gasdotti e i trasporti navali.

Ricordo a questo proposito che il presidente Xi Jinping, nel 2015, aveva proposto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il progetto della Global Energy Interconnection per “rispondere alla domanda globale di elettricità promuovendo lo sviluppo delle soluzioni alternative e verdi”. Il progetto, aggiornato e presentato alla COP25 di Madrid dalla Ong Geidco insieme al World Meteorological Organization e International Institute for Applied Systems Analysis, potrebbe essere una base di discussione utile per un dialogo tra Usa, Europa, India e Cina verso un accordo globale per la decarbonizzazione.

Mentre l’evidenza della vulnerabilità crescente ai cambiamenti climatici, in particolare nelle aree metropolitane e nelle megalopoli così come nelle zone costiere, suggerisce l’urgenza della revisione dei criteri di sviluppo e uso dei territori sia nelle politiche nazionali che in quella della cooperazione internazionale (l’obiettivo 13 di Sustainable Development Goals “Strengthen resilience and adaptive capacity to climate-related hazards and natural disasters in all countries”).

A questo proposito va ricordato che negli ultimi 20 anni sono stati registrati 7.500 eventi climatici estremi, quasi il doppio rispetto al ventennio precedente, con oltre 1.200 vittime e danni per quasi 3.000 miliardi $.

La Commissione europea, con un rapporto del febbraio 2021, ha stimato che sulla base del trend attuale di aumento della temperatura, senza misure per l’adattamento il costo annuale dei danni provocati dagli eventi climatici estremi potrebbe raggiungere 170 miliardi di euro anche tenuto conto che “bloccare tutte le emissioni di gas serra non previene gli impatti climatici che sono in corso e che continueranno ancora per decenni”.

Un documento comune del G20, per concordare standard comuni di uso e gestione del territorio ai fini dell’adattamento ai cambiamenti climatici, e per aggiornare i programmi e gli impegni finanziari a favore delle economie più deboli e maggiormente vulnerabili, potrebbe rappresentare la base di un accordo alla COP26 che vada oltre il Green Climate Fund e coinvolga tutte le grandi istituzioni finanziarie mondiali.

 

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