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Riforma dell’intelligence. Il nodo delle “covert operation”

Riformare l’intelligence significa stabilire obiettivi politici precisi da affidare alle strutture che proteggono la sicurezza dello Stato e definire istituti giuridici chiari. Non farlo rischia di consentire il perpetuarsi di abusi e strumentalizzazioni pericolose per la democrazia. Il commento di Andrea Monti, professore incaricato di Digital Law, università di Chieti-Pescara

In termini puramente astratti, una riforma normativa dell’intelligence dovrebbe seguire innanzi tutto le regole dell’interpretazione giuridica. Dunque, in primo luogo, dovrebbe definire degli istituti giuridici —primo fra tutti quello della sicurezza nazionale — in modo da gestire coerentemente le attribuzioni dei diversi attori, dalla presidenza del Consiglio, al ministero dell’Interno, a quello della Difesa, della Giustizia e via discorrendo.

Tuttavia, a partire dalla confusa legge 124 del 2007 e fino alle ultime modifiche normative, parlamento e governo hanno sistematicamente evitato di compiere questa scelta. Eppure le Commissioni Riunite I e IX avevano formulato un emendamento alla legge di conversione del decreto istitutivo dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale che andava proprio in questa direzione, ma il testo finale non lo ha recepito.

 

La non scelta del legislatore

La scelta politica è libera nel fine e dunque insindacabile giuridicamente. Sta di fatto, però, che senza un “gancio” definitorio saldo è estremamente difficile regolare non solo e non tanto ciò che dell’intelligence si vede, ma soprattutto ciò che non arriva —che non deve arrivare— all’attenzione del pubblico. Questo vale, in modo particolare, per le attività coperte dalle cosiddette “garanzie funzionali” (che escludono la punibilità degli operatori per alcuni reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni) ma soprattutto per le operazioni clandestine e per quelle soggette a plausible deniability.

 

Il rischio escalation causato dalla militarizzazione degli attacchi informatici

Questi aspetti della tutela della sicurezza nazionale sono sempre stati centrali nelle scelte politiche degli Stati, ma oggi assumono un’importanza fondamentale. La facilità con la quale possono essere condotte operazioni a distanza grazie virus informatici, tecniche per accedere abusivamente e sabotare infrastrutture critiche di Paesi non-nemici implica maggiore frequenza e intensità degli attacchi e, di conseguenza, l’aumento del rischio che errori o fughe di notizie provochino escalation verso conflitti aperti. Le accuse che Stati Uniti, da un lato e, dall’altro, Cina e Russia (oppure Iran e Israele) si scambiano reciprocamente a questo proposito sono la migliore evidenza della criticità rappresentata dal ricorso ad attacchi non convenzionali resi più accettabili anche al livello politico per il fatto che non provocano (almeno nell’immediato) spargimenti di sangue.

 

La gestione extraparlamentare della sicurezza nazionale

L’analisi della storia recente del nostro Paese è un punto di partenza utile per focalizzare il problema e (forse) possibili soluzioni.

Per quanto basate su atti desecretati (e dunque già depurati) e su indagini giudiziarie che non hanno fornito informazioni del tutto complete, queste ricostruzioni consentono di affermare che la sicurezza nazionale è stata gestita non solo dagli apparati istituzionalmente a questo deputati. Nel corso degli anni si sono succedute nel compito anche altre strutture. Alcune create sulla base di accordi politici con altri Paesi (Gladio) o da questi finanziate e che operavano parallelamente a quelle ufficiali (Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’interno, “Noto Servizio”) alle dipendenze della presidenza del Consiglio), altre costituite da gruppi paramilitari nati più o meno spontaneamente e poi informalmente “strutturati” nel sistema di difesa (Organizzazione O, Armata italiana per la libertà). Altre ancora —è la tesi di alcuni studiosi di fenomeni terroristici ed eversivi— “lasciate crescere” in modo da poter essere utilizzate in caso di bisogno.

 

Alcuni punti fermi

Prescindendo dalla correttezza delle letture che nel corso del tempo si sono avvicendate sull’argomento, ci sono alcuni punti che possono essere considerati fermi in un inquadramento teorico di questi fenomeni.

Il primo: gli Stati che, in un dato momento storico, hanno una posizione egemone considerano legittimo condizionare direttamente e in ogni modo le scelte di quei Paesi che, per varie ragioni, sono in posizione di subordinazione. Questo include anche l’utilizzo dei Paesi in questione per condurre attività di intelligence verso attori ostili e proxy war.

Il secondo: questi condizionamenti includono la creazione di strutture autonome all’interno e all’esterno delle istituzioni nazionali in grado di compiere anche azioni violente a vario livello di intensità, a prescindere dalle leggi locali.

Il terzo: queste strutture autonome possono avere una sponda politica, oppure avere dei referenti diretti fra gli apparati dello Stato.

Il quarto: il livello politico non necessariamente è coinvolto o informato nella creazione di queste strutture che possono essere gestite direttamente da funzionari della Pubblica Amministrazione.

Un passaggio della corposa relazione della Commissione parlamentare sulle stragi sintetizza efficacemente, ma parzialmente, i termini della questione: “Non ci può essere in queste cose una catena informativa che parta dal basso per raggiungere chi sta in alto. Il rapporto ‘controllore-controllato’ verrebbe sconvolto. […] In sostanza, occorre che vi sia una doppia catena informativa: ‘discendente’, dal responsabile del Governo al Ministro delegato; ‘ascendente’ dal responsabile del Servizio al Ministro delegato o direttamente al Presidente del Consiglio. Comunque non debbono mai essere i Servizi a decidere che cosa dire a chi”.

 

Alcune criticità

Per quanto istituzionalmente ineccepibile, il ragionamento della Commissione parlamentare è parzialmente viziato. In alcuni casi —e in particolare in quelli relativi ad aspetti geopolitici, come ad esempio le extraordinary rendition o la tutela di interessi strategici— lo Stato nella cui giurisdizione maturano determinati eventi è esso stesso un avversario da tenere all’oscuro di ciò che accade. Portando all’estremo il ragionamento (al netto degli obiettivi personali dei singoli partecipanti in termini di carriera e potere) si potrebbe addirittura ritenere che se un apparato dello Stato opera alle dipendenze di una potenza straniera nell’ambito di vincoli di politica internazionale non possa nemmeno essere qualificato come “deviato”. Esso, infatti, persegue obiettivi che vanno al di là degli interessi nazionali.

In nome della machtpolitik dunque, è vero il contrario di quello che scrive Stefania Limiti secondo la quale “la dialettica tra azioni pubbliche e quelle «coperte» non necessariamente produce zone ‘affrancate’ da ogni possibilità di controllo democratico, come, invece, è successo in Italia”. È, infatti, la stessa natura della tutela degli interessi nazionali di uno specifico Paese a richiedere per necessità il ricorso anche ad azioni offensive e clandestine in terra straniera. In altri termini la “doppia catena” informativa proposta dalla Commissione stragi può funzionare per le covert operation —quelle gestite in via riservata ma in ambito istituzionale—e non per quelle che sono al di fuori del “diritto” di uno Stato di sapere cosa accade al proprio interno o di cosa viene compiuto in suo nome.

 

Qualche proposta

Una riforma normativa dell’intelligence dovrebbe confrontarsi con due fatti.

Il primo è che l’ecosistema intelligence mal si presta alla categorizzazione aristotelica in “generi”, “specie”, “categorie” e “accidenti”. La fluidità degli eventi e degli obiettivi non si concilia con schemi rigidi e catene di comando ben definite e dunque con la normativizzazione del settore.

Il secondo è che determinati ambiti non possono, per definizione, essere regolati; ancora oggi, per esempio, il Mossad israeliano opera senza alcun quadro normativo di riferimento alle dipendenze del capo dell’esecutivo.

Di conseguenza, a prescindere dalle regole, è ineluttabile accettare che nel mondo della sicurezza nazionale esisteranno sempre delle zone scure non (pienamente) raggiunte dalla luce delle norme.

Quali siano queste zone scure è oramai, si perdonerà il gioco di parole, abbastanza chiaro. Dunque il tema politico diventa decidere se e fino a che punto determinate attività dell’esecutivo debbano essere sottratte al controllo parlamentare.

Il limite di un approccio del genere è, evidentemente, la sua idoneità a consentire svolte autoritarie o, pur nel rispetto delle forme, la creazione di un governo del presidente (del Consiglio). D’altro canto, come dimostra la storia, leggi e divieti non hanno impedito a determinati soggetti di fare “la cosa giusta” (quantomeno per i loro interessi).

Regolare giuridicamente le covert operation e le azioni clandestine è, in sintesi, il baricentro di una riforma dell’intelligence che, con buona pace dei romanzi di spionaggio, non è attività da svolgere in abito da sera sorseggiando un Martini stirred, not shaken o, in tempi più recenti, una birra ghiacciata.


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