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Quale Intelligence per il futuro? L’analisi di Umberto Saccone

UMBERTO SACCONE ENI

È giunto il momento di rimettere mano all’Intelligence. E secondo Umberto Saccone, presidente di IFI Advisory, ci sono i prodromi positivi per coinvolgere tutti coloro che hanno competenza, esperienza e buona volontà

Settimana interessante e non solo accademica per parlare di Intelligence. Tre politici informati, un think tank e un uomo dei servizi. Tre soggetti che per loro storia personale, il percorso di studi e le attività sul campo non potrebbero essere più diversi. Interlocuzioni stimolanti ai quali vorrei aggiungermi per dare un mio personale contributo di pensiero.

I primi, [Alberto] Pagani (Pd), [Matteo] Perego di Cremnago (Fi) e [Angelo] Tofalo (M5S), tutti e tre membri della commissione Difesa della Camera, in un recente articolo apparso su Formiche, esprimono la necessità di cambiare l’attuale sistema duale, superato nei fatti.

Secondo Pagani “si potrebbe distinguere tra le attività Humint e Osint da un lato e attività tecnologiche, Sigint, Geoint e Cyber-Intelligence”. Secondo Tofalo potrebbe essere utile e significativo avviare un percorso di riflessione che veda coinvolte tutte le forze politiche parlamentari supportate dai principali think tank italiani, coinvolgendo “mondo accademico e alti profili che hanno in passato conosciuto il comparto Intelligence per esperienza diretta”. Anche secondo Perego di Cremnago “la dicotomia interno-esterno è superata dall’attualità”.

In questo senso il ragionamento di Andrea Muratore, analista geopolitico ed economico per Inside Over, un think tank d’informazione dedicato agli esteri, il quale sottolinea come “questa architettura si è dimostrata valida per lungo periodo e non è certo declinata oggigiorno. Necessita semplicemente di venire aggiustata e ristrutturata compatibilmente con le nuove esigenze imposte dall’evoluzione dei teatri di scontro, dalle minacce sistemiche alla sicurezza repubblicana e dai cambiamenti nel perimetro di sicurezza nazionale”.

In sintesi: è giunto il momento di rimettere mano all’Intelligence.

In un recente webinar, parlando di Sun Tzu (generale e filosofo cinese al quale si attribuisce uno dei più importanti trattati di strategia militare di tutti i tempi, “l’arte della guerra”), sottolineavo come l’odierna Intelligence affonda le radici in temi antichi ma sempre attuali.

Abbiamo la presunzione di voler dare modelli innovativi, ma i fondamentali restano immutati. Ogni volta che facciamo una nuova legge ne scopriamo subito la debolezza.

Ogni volta abbiamo buttato alle ortiche quello che di buono c’era e indebolito il sistema, che comunque continua a vivere ed operare con le esperienze pregresse.

Decine di accademici parlano di Intelligence: ma qualcuno di loro ha mai fatto operazioni sul campo?

Per contro gli operativi non parlano perché vincolati al segreto e pertanto il mondo dell’Intelligence, chiuso e inesplorato, resta terreno per chi non sa e tenta di spiegare cosa è.

Anche lo stesso Copasir conosce i risultati, ma non le caratteristiche delle operazioni e gli sforzi che i nostri agenti compiono quotidianamente.

Ed è così che la politica non riesce a produrre soluzioni reali, ma partorisce solo topolini.

Anche all’interno dei Servizi le attività sono compartimentate e nessuno ha veramente il quadro completo. Talvolta neppure i direttori, che molte volte sono scelti dalla politica, non in relazione all’esperienza ma solo in ragione di pesi e contrappesi.

Ricordo il generale Sergio Luccarini, direttore del Servizio protempore, che mi censurò per aver utilizzato la parola “residentura” e non “residenza”, non sapendo che la residentura è il luogo, nelle rappresentanze diplomatiche, dove operano gli agenti di un Paese straniero mentre la residenza è l’abitazione dell’ambasciatore.

Nel 1977 dalle ceneri del SID furono creati il SISMI e il SISDE.

Il primo, il Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Militare, per anni, anche dalla politica, indicato come il Servizio militare. Ma non sapevano, evidentemente, che l’accezione militare si riferiva al potenziale difensivo dello Stato e la dipendenza dal Ministro della Difesa era per una questione di bilanciamento dei poteri. Di fatto il Servizio era un’agenzia autonoma governativa alle dipendenze del Ministro e quindi non inquadrata nel Ministero della Difesa. Per contro il SISDE, Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica, creato per seguire e contrastare le attività legate all’eversione e al terrorismo, fu posto alle dipendenze del Ministro degli Interni.

La debolezza fu evidente quando si vide, per esempio, che attività terroristiche (competenza del SISDE) erano gestite da Servizi Informativi avversari (competenza del SISMI). È di tutta evidenza, per esempio, l’attentato a Giovanni Paolo II commesso il 13 maggio 1981 in piazza San Pietro da Mehmet Ali Ağca, un killer professionista turco. Pochi giorni dopo il fatto fu ipotizzata la pista russo-bulgara, poi ripresa nel settembre 1982 dalla stampa americana, in particolare dalla rivista Reader’s Digest che pubblicò un articolo nel quale la giornalista Claire Sterling indicava i servizi segreti bulgari quali mandanti di Alì Ağca su ispirazione del KGB sovietico per colpire il papa polacco. Solo nel 1992, con la relazione della Commissione Parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, emergono elementi significativi relativamente al supporto dei Servizi dell’Est a vantaggio delle maggiori organizzazioni terroristiche europee e tra queste le Brigate Rosse. Con le dichiarazioni di Gustav Frolik, agente dei Servizi di Sicurezza della Repubblica Socialista Cecoslovacca, defezionato in Occidente, si capisce come i servizi avversari abbiano utilizzato il terrorismo come leva in ottica geostrategica.

Frolik riferì che l’Intelligence cecoslovacca aveva reclutato 4.500 agenti, tra gli stranieri che frequentavano le loro scuole, per formare squadre di terroristi da inviare all’estero. Una di queste squadre, per esempio, venne inviata con armi e esplosivi in Alto Adige, mimetizzata dietro la sigla di un sedicente Comitato di liberazione dei cittadini di lingua tedesca.

Frolik precisò: “Naturalmente noi non volevamo provocare una guerra vera e propria, ma danneggiare l’Italia, che fa parte dell’Alleanza Atlantica, e premere sull’Austria perché si avvicinasse alla nostra parte”.

Appare dunque evidente come terrorismo e Intelligence possono essere il risvolto di una stessa medaglia e che la suddivisone, voluta dal legislatore, abbia manifestato tutta la sua fragilità.

Si passò quindi con la legge 124/2007 a una suddivisione territoriale: interno ed esterno.

Anche questa riforma dimostra oggi, ma era prevedibile anche nel 2007 quando fu promulgata, tutta la sua debolezza. Un’operazione di una cellula terroristica che opera in Iraq compie un attentato a Roma.

Siamo certi che il servizio interno disponga di tutte le informazioni necessarie a prevenire la minaccia?

Quindi anche in questo caso una frammentazione di ruoli mal riuscita.

Ci sono segnali che indicano che stiamo per apprestarci all’ennesima riforma e già c’è chi si sforza di pensare quale nome mettere piuttosto che pensare a quello che realmente andrebbe fatto.

Penso che oggi, per evitare ancora errori, si debba riflettere se non sia giunto il momento per una ridefinizione dei perimetri operativi, passando dal dualismo interno/estermo a quello più pragmatico tra human Intelligence (Humint) e signal Intelligence (Sigint), garantendo a un’agenzia compiti prettamente legati alla raccolta informativa in tutte le diverse declinazioni tecnologiche e a un’altra spiccate prerogative operative, nella consapevolezza che per diverse minacce (terrorismo, criminalità organizzata, scalate straniere all’economia, spionaggio e controspionaggio e così via) spesso la soglia dei confini nazionali non è dirimente nel definire i perimetri.

A supporto di queste tesi l’articolo del colonnello [Mauro] Obinu, sempre per Formiche, operativo nel SISDE prima e dell’AISI dopo, che sottolinea come “serve un bel giro d’orizzonte per mutuare quello che fanno altri Paesi occidentali dello stesso taglio nostro che garantiscono migliore operatività e maggiori tutele per gli operatori humint”.

In sintesi, mi sembra di cogliere, oggi, prodromi positivi per coinvolgere tutti quelli che con competenza, esperienza e, ultimo ma non ultimo, buona volontà, possono aiutare il legislatore a definire una legge al cui centro ci sia esclusivamente la sicurezza nazionale.

 

(Questo articolo è stato pubblicato originariamente su S News)


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