Il futuro di Taiwan è cruciale per il controllo dell’Indo-Pacifico e il ritiro statunitense dall’Afghanistan è una diretta conseguenza di questa scelta strategica, spiega Stefano Pelaggi, docente presso l’Università di Roma La Sapienza
La tragica vicenda afghana ha catalizzato l’attenzione mondiale e molti osservatori internazionali hanno messo in dubbio la proiezione statunitense al di fuori dei propri confini, la capacità di Washington di mantenere la supremazia strategica e lo stesso futuro degli equilibri globali.
Giornalisti e analisti si sono interrogati sulla valenza delle scelte statunitensi mentre scenari molto lontani da quello dell’Asia Centrale sono stati confrontati agli avvenimenti delle scorse settimane. Soprattutto il futuro dell’Ucraina e di Taiwan è stato ampiamente dibattuto alla luce del ritiro statunitense dall’Afghanistan. I media della Repubblica popolare cinese, diplomatici e commentatori vicini alle posizioni di Pechino hanno interpretato gli eventi afgani come un segnale per Taiwan. Gli articoli dei quotidiani cinesi sottolineano la presunta fragilità del sostegno statunitense e la debolezza del partito al governo a Taiwan. Il Global Times ha titolato: “L’abbandono afghano una lezione per il Democratic Progressive Party di Taiwan”. Il South China Morning Post è rimasto più cauto con un “Cosa può imparare Taiwan dal ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan?”.
Una dinamica oramai ricorrente nella rappresentazione delle relazioni nello Stretto di Taiwan, con i media della Repubblica popolare cinese promuovono attivamente l’interpretazione di una riunificazione ineluttabile e una impossibilità delle forze armate taiwanesi di resistere a una invasione cinese. Una costante azione che ha degli importanti riscontri anche sulla stampa occidentale. In Europa e in Italia non sono mancati commenti e analisi che hanno ripreso le interpretazioni cinesi. Le rivendicazioni di Pechino su Taiwan sembrano oramai scontate e non vengono mai analizzate nelle sue motivazioni storiche. La propaganda di Pechino è stata ripresa e amplificata da media e analisti italiani, in una dinamica sempre più frequente che oltre a intensificarsi trova sempre nuovi interpreti.
Lo scenario della “nuova Guerra fredda”, di un Occidente debole di fronte all’avanzata della Cina e di un disinteresse di Washington delle dinamiche globali sono tasselli ricorrenti di queste narrazioni. Lo scenario taiwanese è diametralmente opposto a quello dell’Afghanistan, innanzitutto il sostegno di Washington per la difesa della sovranità di Taiwan è stato costante e continuo negli ultimi 70 anni.
Dal 25 giugno 1950, quando le truppe comuniste nordcoreane attraversarono il 38° parallelo in Corea del Sud, il sostegno degli Stati Uniti a Taiwan è stato costante. L’isola diventò un essenziale elemento strategico per Washington e tutte le amministrazioni statunitensi hanno supportato lo sviluppo economico dell’isola ma soprattutto garantito la sovranità di Taiwan. La volontà di difendere Taiwan arrivò alla soglia di un conflitto globale. Gli storici ricordano le tre crisi dello Stretto di Taiwan, con le portaerei statunitensi nelle acque territoriali taiwanesi a seguito di un attacco cinese, come i momenti più vicini alla rottura dell’ordine internazionale nello scorso secolo. Quando nel 1979 Washington ha riconosciuto la Repubblica popolare cinese come il legittimo rappresentante del territorio cinese, le relazioni tra Stati Uniti e Taiwan sono state formalizzate attraverso una complessa serie di compromessi semantici, eccezionalità dei trattati internazionali e una infrastruttura legislativa per garantire la difesa dell’isola, oltre che il mantenimento dello status quo. Il successo economico taiwanese e il processo di democratizzazione del paese, iniziato negli anni Ottanta e portato a termine nel 1996 con le prime elezioni libere in una nazione di cultura cinese, hanno trasformato la natura dell’alleanza con Washington.
Il sostegno statunitense a Taiwan, inizialmente esclusivamente declinato in chiave anticomunista, è diventato un elemento essenziale della strategia di Washington nell’Indo-Pacifico. La dimensione valoriale, con le classifiche che registrano lo stato di salute delle democrazie in Asia vedono Taiwan immancabilmente prima da anni, è un fattore importante. Soprattutto Taiwan è un tassello cruciale nella competizione tecnologica tra Pechino e Washington, le fonderie di microchip taiwanesi producono più del 60 per cento dei circuiti integrati nel mercato globale. Mentre il controllo delle acque territoriali taiwanesi è centrale per la gestione dei flussi commerciali nella regione. La Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo stima che più di un terzo delle merci mondiali viaggiano nel Mar Cinese meridionale mentre una ricerca del Fondo monetario internazionale indica che la metà del commercio globale della Cina transita in quella porzione dell’Oceano Pacifico. Lo Stretto di Taiwan rappresenta un vero e proprio collo di bottiglia nel Mar Cinese meridionale e il controllo dello Stretto costituisce un chiaro vantaggio, sia a livello commerciale sia strategico.
Il futuro di Taiwan è cruciale per il controllo dell’Indo-Pacifico, la regione considerata essenziale per dalla Casa Bianca, e il ritiro dall’Afghanistan è una diretta conseguenza di questa scelta strategica. Mentre la necessità di difendere la sovranità dell’isola è una priorità dell’amministrazione statunitense.
La propaganda della Repubblica popolare cinese, paragonando il ritiro dall’Asia Centrale a futuri scenari nello Stretto di Taiwan, sostiene una interpretazione che oramai da decenni Pechino cerca di imporre sull’opinione pubblica internazionale. Mentre i numerosi riferimenti alla similitudine tra Afghanistan e Taiwan sulla stampa italiana ben rendono la capacità di influenza che Pechino ha oramai raggiunto in Italia.
(Foto: Lijian Zhao, Twitter @zlj517)