Cosa si è sbagliato a Doha? Il commento del generale Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione Icsa, già capo di Stato maggiore dell’Aeronautica
È più che giusto l’unanime coro di condanna per la maniera, indecorosa per l’Occidente e tragica per il popolo afgano, con cui si è conclusa la missione internazionale di supporto al governo di Kabul.
Poco si è sentito e scritto invece sul da farsi, sulle iniziative che la collettività intende mettere in cantiere, e subito, magari prima della sortita improvvida di qualche paese che renderebbe poi più arduo un percorso condiviso.
Un punto in particolare pare centrale nel way ahead da costruire, e sono gli accordi di Doha negoziati dagli Stati Uniti in solitudine e tutt’oggi ancora poco chiari nella loro formulazione. Cosa si sono detti i negoziatori statunitensi e talebani a Doha, quali impegni hanno spuntato gli Stati Uniti per il futuro dell’Afghanistan?
Pare di capire che gli unici punti fermi siano stati il ritiro delle truppe e l’isolamento di Al Quaeda, i soli interessi degli Usa insomma, null’altro. Ma in questi negoziati bizzarri e poco chiari in cui mai le tre parti in causa si sono sedute allo stesso tavolo, è stato detto qualcosa sulla transizione dei poteri verso un nuovo assetto statuale o si è lasciata mano libera allo schianto, alle rappresaglie, alle vendette ed alla segregazione delle donne nel buio antro dal quale cominciavano ad uscire?
Ecco perché è necessario che gli Stati Uniti scoprano le carte fino in fondo, affinché la comunità internazionale valuti i comportamenti dei talebani alla luce degli impegni da essi stessi presi e su questa base si possa decidere se e quale tipo di rapporti intrattenere con l’istituendo Emirato Islamico dell’Afghanistan.
O molto più verosimilmente, preso atto della riottosità talebana a rispettare gli accordi, costruirne dei nuovi, una sorta di Doha Plus, un capitolato di impegni condiviso, che abbia come punto di partenza minimo i risultati raggiunti in questi venti anni dai contingenti della missione Resolute Support, le conquiste civili e sociali in primis, con particolare riferimento a quelli delle donne, da estendere poi alle comunita più remote del vasto territorio afgano. E, avendo in mente la immaginabile inattendibilità della controparte, prevedere meccanismi di verifica e controllo stringenti e vincolanti. Solo su questo valutare l’accoglibilità del nuovo regime nella comunità internazionale, ad iniziare dal riconoscimento formale del nuovo governo.
Infine, tra le numerose lezioni che l’infausto epilogo di Kabul ha messo in luce, una emerge con particolare evidenza agli occhi più attenti e – cosa ancora più grave – si ripete con sistematicità: il vizietto statunitense dello “U.S. eyes only”. Un concetto cui gli Stati Uniti attingono a piene mani anche in situazioni segnate da un drammatico destino comune, come quelle di cobelligeranza. Si condivide tutto salvo alcune cose cui neppure gli alleati più fedeli possono aver accesso.
Questo pare essere successo nei famigerati accordi di Doha; sarebbe grave se i contenuti non fossero, anche solo in parte stati coordinati con i paesi amici, compagni di ventura per venti anni.
D’altronde gli amici esistono anche per questo, aiutano a sbagliare meno; il consiglio quindi agli Stati Uniti, ormai orientati ad un disimpegno generalizzato, è che possano nelle occasioni di impegno comune a venire, mostrare più sensibilità e rispetto per alleati ed amici, sopratutto quelli che sono sempre stati, talvolta anche acriticamente, al loro fianco.