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Così Erdogan ha piazzato la sua bandierina anche in Afghanistan

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Nessuna sorpresa dalla presenza turca in Afghanistan. Ma come mai Erdogan vince sempre? L’analisi di Giovanni Lippa, PhD, Scuola di Alta Formazione Europea e Mediterranea Jean Monnet

In molti sono rimasti sorpresi dalla presenza di bandiere e soldati turchi nel lontano Afghanistan, inesorabilmente riconquistato dai Talebani. Nei giorni scorsi, la rivista che ci ospita ha ottimamente descritto le ragioni della geopolitica dell’energia che muovono i complessi equilibri nell’area. Si tratta di argomenti molto convincenti.

In più, non dobbiamo dimenticare che la Turchia fa tuttora parte della Nato, l’organizzazione che, logisticamente, ha consentito agli Stati Uniti l’occupazione militare del territorio afgano nell’ultimo ventennio.

Dunque, si tratta probabilmente di una sorpresa in parte ingiustificata.

Ci sono però delle altre letture, su cui ci fa piacere fare un po’ di luce. La vera domanda è: perché Recep Tayyip Erdogan vince sempre e dovunque?

Più di chiunque altro, infatti, Erdogan è riuscito negli anni a farsi beffe della comunità internazionale, tessendo complesse strategie e alleanze, che gli hanno consentito di uscire sostanzialmente vincitore in tutti gli scenari in cui si è trovato a operare.

La meno cruenta è stata la vittoria sull’Unione europea: sedotto per molti anni e poi abbandonato, anzi ripudiato, sulla base di evidenti, quanto ipocrite, valutazioni sociologiche, si è preso la rivincita con Bruxelles mettendola letteralmente a sedere in un angolo, con mediatica teatralità. Non sono peraltro mancati momenti di alta tensione con nemici e alleati: Israele, Iran, Siria, Libia, Italia, Emirati Arabi Uniti, Francia, Iraq, Egitto, Libano, Germania hanno tutti incrociato la scimitarra del Sultano, spesso uscendone a capo chino. La meritevole minoranza curda è uscita, politicamente e militarmente, con le ossa rotte da uno scontro senza fine. Senza dimenticare la Russia, con cui in almeno in due occasioni si è sfiorata una crisi militare irreversibile. Fummo testimoni diretti di una brillante battuta di una diplomatica russa, che descrisse così il peculiare rapporto tra i due Paesi confinanti: quando non puoi aggredire il vicino, devi sperare che il tuo abbraccio prima o poi lo soffochi.

Il tutto, condito da un fallito colpo di Stato, goffamente ordito dagli occidentali, con tanto di aerei cisterna alleati, e sventato da Erdogan con un solo disperato discorso alla popolazione, prontamente insorta.

Incurante dei ripetuti richiami del Fondo monetario internazionale, e nonostante pesanti accenni di crisi, Erdogan ha proseguito sulla traiettoria economica divergente inaugurata dai suoi predecessori, finanziando e sostenendo addirittura un capillare programma di presenza ed espansione all’estero, inattuabile persino per tante nazioni a economia avanzata.

Qual è dunque il suo segreto? È difficile dare una risposta univoca. Sicuramente, un leader quasi sconfitto e ridotto al silenzio mediatico, che trova modo di comunicare con il suo popolo attraverso l’unica applicazione Apple rimasta fuori dalla censura, è da considerarsi quantomeno un generale fortunato, per dirla con Napoleone.

Più realisticamente, Erdogan è il partner scelto dagli americani per cercare di contrastare – per interposta persona – l’ingombrante presenza dei tre avversari storici: Russia, Iran e Cina. La rovinosa strategia delle Primavere arabe, si è infatti rivelata fallimentare tanto quanto l’esportazione della democrazia, obbligando a studiare nuove strategie. Chi scrive, però, ha un dubbio: raramente i contemporanei del crollo di un impero hanno preso contezza dell’imminente caduta. Senza entrare in discorsi troppo complessi e forse impopolari, l’emergenza sanitaria in atto ha messo in luce tutti i limiti dell’approccio occidentale: da appassionato all’analisi dei dati effettivi e delle strategie di contrasto, è possibile senza tema di smentita dire che Cina, Russia e Turchia non hanno seguito le strategie nostrane. Facendo una battuta, potremmo dire che le loro strategie assomigliano più a quelle di uno Stato americano del Sud che a quelle di Roma e Parigi.

Uscendo fuori metafora, occorrerebbe spiegare a coloro che si meravigliano della bandiera turca a Kabul come alcuni precisi fattori abbiano determinato e determineranno il successo nello scacchiere della seconda modernità: l’accettazione del rischio come cifra ineliminabile dell’agire sociale e politico; l’importanza del tempo, inteso come il “medio-lungo periodo” di maturazione dei frutti di una strategia; una forte spinta identitaria che consenta di saldare tra loro un dato agire al suo tempo. È vero che Baradar è stato rilasciato nel 2018 dal Pakistan su espressa richiesta dell’allora inviato speciale statunitense: ma come ha scritto Toni Capuozzo, fine conoscitore del teatro afgano, la guerra l’hanno combattuta e vinta i Talebani, non solo con le armi straniere, ma con la loro tenacia, i loro sandali e le loro vesti. Nella sfida della seconda modernità, come nella tragica e goffa ritirata da Kabul, l’Occidente e le sue categorie appaiono estremamente inadeguati al mondo che cambia. Ci serve un popolo o ci serve un sultano?

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