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Quale ruolo per gli Usa dopo Afghanistan e Iraq? Un tema dottrinale

Pretendere di smontare con superficialità e rapidità la complessa logica di quegli interventi si è rivelata un’operazione rischiosa. E ora? L’analisi di Emilio Minniti, docente a contratto presso l’Università degli Studi Internazionali di Roma

Henry Kissinger, nel saggio L’arte della diplomazia, ha evidenziato come la politica estera americana abbia storicamente oscillato, e continui costitutivamente a oscillare, tra due orientamenti opposti e contraddittori, quali “l’isolazionismo” e “l’universalismo”. Da tali orientamenti sono scaturite due differenti visioni del Paese e del proprio ruolo nella storia: la prima ha concepito gli Stati Uniti come “faro” del mondo, e li ha indotti a perfezionare al proprio interno la democrazia e i suoi principi; la seconda ha inteso il Paese quale “crociato”, orientandolo a esportare a livello internazionale quegli stessi principi. Tali scuole di pensiero aderiscono entrambe perfettamente all’esperienza storica americana e ne rispecchiano lo spirito.

Le parole pronunciate dal presidente Joe Biden per spiegare le ragioni del frettoloso ritiro americano dall’Afganistan – “eravamo lì per combattere il terrorismo, non per costruire una nazione” – hanno dato vita ad un acceso dibattito che ha investito le fondamenta della “visione” americana del mondo e del suo ruolo in esso.

La concitata partenza da Kabul, infatti, sembra aver segnato l’abbandono, quantomeno in riferimento al contesto islamico, della dottrina neocon dell’esportazione della democrazia, la quale, è bene ricordarlo, aveva prevalso nel post 11 settembre su quella coeva dello “scontro delle civiltà” elaborata da Samuel P. Huntington.

Nel tentativo di smarcarsi da questo specifico orientamento ideologico e di ribadire l’esigenza di un non più procrastinabile ritiro, il presidente statunitense ha fatto riferimento al piano concreto degli obbiettivi della lotta al terrorismo, rendendo così evidente, paradossalmente, quello che è il punto debole più immediato della sua azione.

Le operazioni militari della guerra globale al terrorismo dell’amministrazione di George W. Bush, infatti, non erano state concepite esclusivamente sulla base della volontà neocon di sconfiggere il terrorismo esportando la democrazia nel mondo islamico, ma anche sull’affermazione di un contestuale orientamento conservatore di matrice realista che verteva sulla dottrina del “dominio rapido” (“shock and awe”, colpisci e terrorizza).

Tale dottrina, elaborata da Harlan K. Ullman e James P. Wade nel 1996, teorizza la proiezione di una forza travolgente il più rapidamente possibile, al fine di rendere il nemico impotente sul piano militare e, soprattutto, psicologicamente non in grado di proseguire il combattimento. Il tutto con il minor numero possibile di vittime americane e tra i civili.

L’immagine evocata dai suoi teorici per rappresentarne l’impatto e gli obbiettivi è quella di Hiroshima e Nagasaki, ma senza l’impiego di armi nucleari e riducendo al minimo le vittime civili grazie all’elevata precisione degli armamenti statunitensi.

Gli interventi in Afganistan e in Iraq hanno costituito l’applicazione di tale strategia, e ciò in termini che potremmo definire più “generali”, lanciando un chiaro segnale di forza all’universo jihadista, a quei paesi che in vario modo sostenevano il terrorismo, nonché a quelle élite governative islamiche alleate alle quali era stato affidato il compito di contenere il radicalismo.

Dunque, la guerra al terrorismo avviata dall’amministrazione Bush ha fondamentalmente fatto perno su due diverse assi portanti, l’una “idealista” e l’altra riconducibile a un approccio classico da realpolitik.

Le argomentazioni del presidente Biden hanno fatto espressamente riferimento a quelli che erano gli obbiettivi precedentemente perseguiti in una logica “realista”, senza tuttavia spiegare in che modo la loro preservazione ne risulterebbe al momento garantita.

Le immagini della fuga dei militari statunitensi dall’aeroporto di Kabul, e il contestuale ritorno dei talebani alla guida del Paese, rischiano infatti di offuscare la percezione della forza americana espressa nella guerra al terrore, producendo una fiammata di ritorno nell’universo jihadista, nelle sacche della società islamica ostile all’Occidente e tra i regimi che sostengono il terrorismo.

Pertanto, con il ritiro dall’Afghanistan il presidente statunitense non ha soltanto ammainato la bandiera dell’esportazione della democrazia ma ha rimesso in discussione la dottrina politico-militare su cui si è basato il post 11 settembre.

Il crollo repentino dell’esercito afgano ha posto Biden (e Donald Trump) di fronte all’evidenza di non poter mettere in atto una exit strategy dalla “guerra più lunga” degli Stati Uniti senza elaborare e attuare, contestualmente, una nuova e generale dottrina politico-militare per la lotta al terrorismo e all’islamismo antiamericano.

Pretendere di smontare con superficialità e rapidità la complessa logica di quegli interventi si è rivelata un’operazione rischiosa, che può preludere a una intensa fase di caos e alla possibile necessità di nuovi interventi.

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