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L’America per noi. Le relazioni tra Italia e Stati Uniti da Sigonella a oggi

Di Giacomo Centanaro

Nella giornata di apertura della terza edizione, conclusasi domenica 19 settembre, del Festival Dialoghi di Pandora Rivista, dal titolo “La nuova Frontiera. Costruire insieme”, in un incontro organizzato in collaborazione con Formiche si è discusso dei rapporti tra il nostro Paese e l’alleato statunitense, a partire dal libro L’America per noi del giornalista del Tg1 Mario De Pizzo. Con l’autore c’erano Filippo Andreatta, Raffaella Baritono, Antonio Di Bella e Luciano Violante, con la moderazione della direttrice di Formiche Flavia Giacobbe

L’America per noi di Mario De Pizzo, edito da Luiss University Press, è un’occasione per approfondire le percezioni maturate dai massimi responsabili politici e istituzionali del nostro Paese nei confronti degli Stati Uniti: alleato e partner in numerosi settori, garante della sicurezza ma, ovviamente, pur sempre una superpotenza che, oggi come allora, persegue sotto ogni forma i propri irrinunciabili imperativi.

Per usare le parole di Luciano Violante, parlare di politica estera è complicato: in genere chi lo fa descrive la propria prospettiva, ma Mario De Pizzo ha tenuto fede al proprio mestiere di giornalista, esprimendo il punto di vista di tutti i presidenti del Consiglio italiani e di altri importanti responsabili politici, che si sono succeduti dalla questione di Sigonella con Bettino Craxi ai giorni nostri, rispetto al loro rapporto con la potenza statunitense, ognuno con le proprie specificità e le contingenze di quel periodo specifico. Sempre secondo Violante, la principale qualità del libro è da ricercare nella capacità di rappresentare in maniera accessibile modalità ed equilibri con cui i dirigenti politici italiani abbiano vissuto e gestito il rapporto con gli Stati Uniti e il ruolo dell’Italia, partner minore nella relazione di potere in questione, nei disegni statunitensi per il sistema internazionale.

Una relazione cruciale e al tempo stesso complessa, talvolta animata inevitabilmente da fraintendimenti e differenze di percezione di Washington, a cui la professoressa Raffaella Baritono si riferisce in maniera esemplificativa come “orientalismo” da parte di Washington. La peculiare prassi del sistema di governo italiano e le frequenti e – agli occhi statunitensi – complesse transizioni e turbolente vicende politiche tra i governi italiani che si succedevano senza soluzione di continuità costituivano uno dei principali nodi nella mutua comprensione tra i due alleati. Inoltre, come riportato da un diplomatico statunitense in servizio a Roma negli anni Novanta, l’Italia non era al centro degli interessi statunitensi perché non era una potenza, non creava problemi ma costituiva “un enigma, a volte un mistero”.

LE FOTO DELLA PRESENTAZIONE

Secondo Baritono, in determinate fasi significative delle relazioni Italia-Stati Uniti, se gli Usa avessero avuto una visione diversa, meno stereotipata, dell’Italia, il nostro Paese avrebbe potuto esercitare un ruolo utile agli Stati Uniti in aree come il Nord Africa e il Medio Oriente. In questo senso, il caso del vertice tenutosi a Pratica di Mare nel 2002 tra Bush e Putin, con il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi a fare gli onori di casa, costituirebbe un’eccezione. Lampante è l’esempio fornito dagli eventi di Sigonella e dallo scontro tra Craxi e Reagan in cui si concretizzò il conflitto tra una visione manichea statunitense – o almeno così sembrava, considerando che contemporaneamente alla linea della durezza l’amministrazione Reagan conduceva l’operazione Iran-Contras – e la maggiore inclinazione italiana a leggere e assecondare la complessità di conflitti ed equilibri nel mondo mediterraneo e medio-orientale.

Violante ricorda ciò che Kissinger, nelle sue memorie, scrive a proposito del suo incontro con Aldo Moro in cui fece notare la mancanza di stabilità nei titolari della Farnesina, che spesso si alternavano ogni sei mesi. La risposta di Moro invitava Washington a focalizzarsi sulla continuità della linea politica, piuttosto che sui singoli protagonisti deputati a condurla, indicati dalle stesse forze politiche che garantivano la continuità. Non bisogna quindi, secondo Violante, considerare questo elemento peculiare come un segno di instabilità nella politica estera italiana, essendo questo ricambio anche orientato a prevenire eccessive concentrazioni di potere in mano a singole correnti della Democrazia Cristiana: la linea politica era, nella sostanza, la stessa. Il problema invece si è posto concretamente a partire dal 1994, quando ad ogni cambiamento di governo è corrisposto un cambiamento di linea della politica estera. Da quel momento in Italia nessun governo in carica è stato riconfermato alle elezioni successive e così i governi non fanno in tempo ad accreditarsi con gli interlocutori internazionali creando una relazione stabile frutto di un’interazione ripetuta.

Una superpotenza, il “forte” nella relazione bilaterale rimane comunque tale, nonostante stretti rapporti di alleanza, condizione della quale alcuni tragici eventi hanno rappresentato il sintomo (ad esempio il disastro del Cermis o la morte dell’agente del Sismi Nicola Calipari) e in cui le amministrazioni americane hanno rivendicato la giurisdizione esclusiva sul proprio personale militare. Secondo la professoressa Baritono, questo aspetto è tuttavia applicabile nelle relazioni tra gli Stati Uniti e tutti i loro alleati e va compreso in un contesto più ampio, se il comportamento delle amministrazioni americane viene osservato alla luce di tre secoli di storia e diplomazia.

Contesto che si ritrova già dal 1844, per esempio, quando gli Stati Uniti non erano una grande potenza ma, anzi, una nazione debole che dipendeva dall’impero britannico per le sue rotte commerciali. In quell’anno gli Stati Uniti stipularono un trattato con la Cina che prevedeva anche l’extraterritorialità per i cittadini statunitensi, cui veniva riconosciuto il diritto a essere giudicati secondo la legge americana. Era una clausola diretta a proteggere gli imprenditori e i missionari americani e non, specificamente, personale militare statunitense, ma che ci riporta all’idea di una sovranità statunitense che si lega quasi al corpo stesso degli americani che sono titolari dei diritti costituzionali domestici. Altro aspetto significativo in questo senso è la dimostrata difficoltà da parte degli Stati Uniti nella ratifica di convenzioni internazionali aventi come oggetto l’introduzione nell’ordinamento domestico di ulteriori garanzie di diritti; si veda l’esempio della “Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne” del 1979 che generò un grande dibattito e proteste da parte di numerosi giuristi statunitensi che la ritenevano contraria alla Costituzione. Si tratta di un tema che rimanda al difficile rapporto tra gli Usa e la società internazionale e sull’idea di mettere in discussione la sovranità americana su dossier di respiro globale quando questi penetrino la sfera degli interessi nazionali.

Il contesto internazionale è tuttavia in continuo mutamento e, come sottolinea il professor Filippo Andreatta, gli Stati Uniti non godono più dell’elevato grado di discrezionalità della parentesi unipolare seguita al crollo dell’Unione Sovietica, alla fine del 1991. Le amministrazioni americane, a partire da Obama, ne sono state consapevoli e a questa consapevolezza hanno accompagnato nuove linee di azione e nuove aspettative nei confronti degli alleati. Per diretta conseguenza, le relazioni asimmetriche tra una superpotenza e i suoi alleati dipendono dalla struttura e quindi dalle necessità derivanti dal sistema internazionale. In un sistema internazionale multipolare, in particolare, i rapporti tra Italia e Stati Uniti si legano a doppio filo alle dinamiche politiche dell’Unione Europea e alla sua eventuale capacità di dotarsi o meno di una politica estera e di una difesa comune e, soprattutto, autonoma.

Di questo quadro, come ricorda Antonio Di Bella, fa parte il ritiro dall’Afghanistan e la conclusione di un’operazione che drenava ingenti risorse economiche ed energie politiche, impedendo un maggiore focus sul Pacifico e, per esempio, su Taiwan, possibile innesco di un conflitto tra le traiettorie opposte di un impero calante e uno crescente (Cina). Se Di Bella espone dubbi riguardo alla reale capacità dell’Unione Europea di dotarsi di una force de frappe autonoma, Violante risponde sottolineando la cruciale dimensione tecnologica dell’opposizione tra Stati Uniti e Cina, che si gioca anche in settori sulla frontiera tecnologica come la componente aerospaziale. In una partita così determinante, per l’Italia tra il 2018 e il 2019 si è aperto uno scenario da molti giudicato di evidente lotta per l’influenza da parte di paesi non liberal-democratici, come Russia e Cina. Il peso specifico del Paese è tuttavia aumentato grazie a una congiuntura politica dello spazio europeo dovuta al ritiro della Cancelliera Angela Merkel e alla nascita del governo presieduto da Mario Draghi, figura accreditata e rispettata.

Come ricorda l’autore Mario De Pizzo, Giuliano Amato racconta che all’inizio degli anni Novanta l’Europa era essenzialmente vista come composta da tre grandi Paesi: Gran Bretagna, Germania e Francia – e poi dall’Italia, un Paese di misura media, che riusciva ad avvicinarsi al primo gruppo quando sfruttava bene la propria relazione speciale con gli Stati Uniti. Draghi richiedendo la fiducia alle Camere ha dichiarato che “non c’è sovranità nella solitudine”, ritenendo impensabile che l’Italia possa operare nello scacchiere internazionale in misura ambigua, a prescindere dagli interessi comuni che condivide con i suoi partner storici. È necessario che si inizi a definire i propri obiettivi strategici di lungo periodo insieme a Berlino, Parigi e al resto d’Europa. La tesi portata avanti dall’autore e che lega il destino delle relazioni tra Italia e Stati Uniti a quelle con l’Unione Europea è che senza un salto di qualità l’Europa non siederà più al tavolo dei grandi. In questa dinamica l’Italia può contare su solidi rapporti con l’alleato americano su programmi di grande importanza, come gli Artemis Accords per il ritorno sulla Luna – nell’ambito della nuova corsa allo spazio – in cui l’Italia è stata uno dei primi partner a essere coinvolti.

L’eredità storica della Seconda guerra mondiale, ultima vera e propria guerra per l’egemonia che ha riconfigurato il sistema internazionale, è evidente nella persistente importanza del rapporto transatlantico tra Italia e Stati Uniti e nel fatto che in sede di definizione di linee strategiche di politica estera e militare, la discrezionalità dell’azione italiana sia ponderata in base alla posizione di Washington. Elemento di particolare interesse è rilevare quanto, nel rapporto tra i due Stati, alla dimensione pragmatica e asimmetrica derivante dall’interazione tra una superpotenza e una media potenza, si aggiunga quella di dialogo e comprensione tra due Stati sovrani alleati che condividono valori e interessi sul piano internazionale.

Per comprendere questa seconda dimensione diventa fondamentale guardare alle reciproche percezioni di sé stessi e dell’altro, a un processo di definizione della propria identità che è relazionale e definito rispetto all’interlocutore – tema caro alla letteratura costruttivista delle Relazioni Internazionali, si veda Alexander Wendt. Le relazioni tra Italia e Stati Uniti hanno dimostrato importanti linee di continuità ma anche cesure e significativi momenti di passaggio, che impediscono di qualificarle come una relazione di servitù clientelare con ampi gradi di autonomia. Leggere le dichiarazioni di chi ha incarnato e al tempo stesso ha dovuto governare questa relazione aiuta a fare luce su un rapporto complesso e spesso semplificato.



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