Dobbiamo aspettarci politiche di bilancio e della moneta per contenere l’aumento dell’inflazione? Sarebbe una strada pericolosa in quanto non siamo ancora tornati a livelli di produzione e di occupazione da considerare “normali”. I suggerimenti del prof. Giuseppe Pennisi
L’impennata dei prezzi di alcune categorie di prodotti non si calma. Su questa testata, abbiamo già trattato il problema delle bollette per il gas e la luce elettrica; siamo lieti che il governo pare stia seguendo il suggerimento, anche di questa testata, di calmierarlo quanto meno per le fasce più deboli, riallocando parte della spesa pubblica ed eliminando alcuni balzelli impropri che da anni gravano sulle bollette di gas e di luce elettrica. Altri comparti sono in subbuglio: i prezzi dell’alluminio hanno toccato il record decennale, quelli dell’acciaio sono raddoppiati, per carta e cartone il rialzo tocca il 70%, per il grano duro il 60%, per olio e zucchero l’incremento supera il 10%.
Dobbiamo aspettarci una nuova ondata d’inflazione e, quindi, l’esigenza di politiche di bilancio e della moneta per contenerla? Sarebbe una strada pericolosa in quanto non siamo ancora tornati a livelli di produzione e di occupazione da considerare “normali” dopo la forte recessione causata dalla pandemia. Quindi, il suggerimento è di attendere prima di formulare misure restrittive.
È saggio attendere prima di pensare ad una politica anti-inflazione per due motivi:
a) una determinante del rapido aumento dei prezzi di alcuni beni (e servizi: ad esempio, i noli) altro non è che un rimbalzo dalla forte caduta della produzione nel 2020 (particolarmente nei mesi del lockdown ) i cui livelli, soprattutto in Italia, non sono ancora tornati a quelli del 2019;
b) la pandemia e le sue conseguenze economiche hanno messo in atto una ristrutturazione mondiale delle catene dell’offerta volta a sbloccare strozzature (attuali o potenziali) note da anni agli esperti di logistica ma che hanno destato l’attenzione dell’opinione pubblica e soprattutto della politica soltanto quando si sono manifestate in modo drammatico (si pensi all’incaglio del porta-container Ever Green nel canale di Suez).
Per quanto attiene il primo punto è da considerarsi “normale” un aumento dei prezzi a forte di un forte rimbalzo delle domanda se le strutture di produzione di materie prime, fortemente colpita durante la forte recessione, non sono state in grado, anche per ragioni tecnologiche, di tenere il passo. Per quanto riguarda il secondo punto (il più importante) proprio in questi ultimi giorni sono apparse sintesi di studi dell’Economist Intelligence Unit e dell’Organizzazione Mondiale del Lavoro su come le catene dell’offerta si stanno ristrutturando.
Ad esempio, a livello mondiale, la pandemia ha mostrato che l’industria della marina commerciale lavora a piena capacità: i cantieri navali stanno lavorando alacremente (anche quelli italiani) per aumentarla. È anche apparso chiaro come sia stato errato concentrare l’industria delle micro-chips in pochissimi Paesi dell’Estremo Oriente: la diversificazione delle fonti di approvvigionamento è un imperativo che rappresenta un’opportunità per gli impianti a Lamezia Terme e, soprattutto, Catania. La Toshiba ha chiuso parte dei suoi impianti in Cina per riportare la produzione in Patria, un piccolo esempio ma eloquente del riassetto in atto. Stanno aumentando gli investimenti in logistica: secondo Morgan Stanley, nel 2021 supereranno del 15% quelli effettuati nel 2019. Il settore “automotive” sta gradualmente avvicinando le fabbriche di manifattura delle componenti a quelle della confezione finale delle auto.
È un processo lungo e complesso che interessa l’Italia da presso: ad esempio, su questa testata Pasquale Lucio Scandizzo ha ben argomentato il ruolo potenziale del Sud e delle Isole nella logistica nell’area del Mediterraneo.