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Un nuovo modo di comunicare la bellezza Italiana. Parla Casati (Velasca)

Conversazione con Enrico Casati, co-founder di Velasca, sull’artigianato oggi e l’innovazione da mettere in campo per il made in Italy. Con uno sguardo al ricambio generazionale nel settore

Innovazione, made in Italy e start up. Enrico Casati, co-founder di Velasca, racconta le sfide dell’artigianato oggi in Italia e i progetti per il futuro, con un occhio al ricambio generazionale. “La maggior parte delle persone che fanno artigianato è avanti con l’età. Questo è il vero problema dato che il sistema moda del made in Italy si basa sulla manualità e rischiamo di perdere questa nostra eccellenza senza un ricambio all’altezza del nostro saper fare”.

A che punto è l’artigianato in Italia?

A lungo ci siamo “dimenticati” che il nostro Paese è un punto di eccellenza del ben fatto artigianale. Anche se in Italia abbiamo gli artigiani migliori che lavorano la pelle, quando abbiamo iniziato l’avventura di Velasca nel 2013 i calzaturifici italiani erano in grande difficoltà. Erano gli anni della crisi del debito e i consumi erano calati portando molte aziende ad avere un calo del fatturato del 30/40%. Eppure il nostro artigianato ha vissuto periodi d’oro, soprattutto negli anni ‘80, ‘90. Poi all’inizio del 2000 la manifattura di base ha iniziato a soffrire per la scalata della Cina e dell’Asia.

Prima della pandemia si era avviato un trend positivo di riscoperta dell’artigianato, anche in un’ottica di sostenibilità, che faceva ben sperare.

A preoccuparmi oggi non sono tanto le crisi ricorrenti che, fondamentalmente, nel nostro sistema capitalistico sono cicliche, quindi inevitabili. Ciò che mi preoccupa davvero guardando all’artigianato è il ricambio generazionale. Oggi la maggior parte delle persone che fanno artigianato è avanti con l’età. Questo è il vero problema dato che il sistema moda del made in Italy si basa sulla manualità e rischiamo di perdere questa nostra eccellenza senza un ricambio all’altezza del nostro saper fare.

Il ricambio generazionale abbraccia non solo il lavoro artigianale ma anche imprenditoriale. Cosa hai imparato sul campo e che suggerimenti ti senti di dare?

La cosa che ho imparato è che la vitalità di un progetto non sta nella genialità dell’idea quanto nella scelta e nella gestione delle persone. Questo fa davvero la differenza e rende possibile un miracolo imprenditoriale.

Il Recovery Plan prevede delle ingenti risorse destinate all’innovazione. Cosa ne pensi di questa operazione?

Molti Paesi hanno virato verso l’innovazione mettendo in campo grandi investimenti. È chiaro che in questo processo innovativo lo Stato dovrebbe avere un ruolo da intermediario. Ciò significa saper scegliere le migliori startup su cui investire e metterle in contatto con operatori privati, come venture capitalist, business angel, fondi di private equity.

Capisco che sia un argomento molto spinoso per un governo entrare nel merito di creare un fondo statale che vada a decidere investimenti diretti in aziende. Ti ritrovi a decidere se investire in Velasca, che sta innovando un settore particolare molto tradizionale, o investire in biotecnologie mediche. Farlo da zero a livello statale risulta quindi molto difficile. Fortunatamente esistono fondi che lo fanno di mestiere, pertanto basterebbe fungere da collettore per collegare realtà che faticano a  incontrarsi.

Quali sono, secondo te, le motivazioni principali di un elevato tasso di fallimento delle startup?

Quando una persona si occupa di innovazione sa che il fallimento fa parte del gioco. È così anche per le aziende che fanno dell’innovazione il proprio core business, non è che ogni progetto messo sul mercato ha sempre successo. Immaginiamo quanto accaduto a Google con Google plus. Tuttavia, sarebbe già un bel punto di partenza se il circuito delle startup fosse inserito in un contesto abilitante, dove vengono minimizzati i rischi legati all’incapacità di raccogliere fondi. Nessuna buona idea può prendere il volo se è a corto di denaro e non sa come intrecciare l’interesse degli investitori. Fallisce ancora prima di vedere la luce.

Come è nata Velasca?

È  nato tutto nell’estate del 2012. Ero in Indonesia, perché all’epoca lavoravo lì nel settore bancario. Mi sono venuti a trovare mio fratello e il suo migliore amico. La scintilla è partita da un episodio. Avevo chiesto a mio fratello di portarmi in Asia un mocassino di pelle perché  a Singapore non trovavo un prodotto che fosse di alta qualità a un prezzo sostenibile.

L’idea di partire dalle scarpe si è originata da questa esigenza da soddisfare, con la consapevolezza che il calzaturiero è un fiore all’occhiello del nostro made in Italy. Qui l’Italia è leader. Realizziamo il 17% di tutte le scarpe artigianali al mondo e Montegranaro è un polo di eccellenza mondiale.

Quali sono stati gli elementi che hanno permesso a Velasca di decollare?

Abbiamo scelto un ambito dove l’Italia è imbattibile nel suo “far bene”: l’artigianato. Noi abbiamo poi valorizzato gli artigiani con una innovazione di processo, ovvero la vendita al consumatore finale come modello di business unitamente ad un modello di comunicazione che mette la persona davvero al centro. Non più “one to many” ma “human to human”, con la certezza che il vero valore di un brand arriva dal senso di appartenenza alla stessa community.

Progetti per il futuro?

Per noi guardare al futuro significa innanzitutto ampliare il catalogo. Vogliamo trasformare Velasca in qualcosa di più ampio, quindi non solo scarpe da uomo ma avere un impatto maggiore fuori dall’Italia con il nostro artigianato. I consumatori nel mondo amano l’allure italiano, il nostro portamento signorile, l’aura di eleganza e fascino che ci precede un po’ ovunque e che ha il suo tratto distintivo proprio nella manualità dei nostri artigiani.

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