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Minerali rari e non solo. Se la Cina valuta di mandare l’esercito in Afghanistan

Di Fabrizio Minniti

Visto il forte interesse politico e il potenziale economico afgano, non è da escludere che Pechino si accordi con i talebani per una presenza militare deputata alla sola tutela degli investimenti effettuati nel Paese. L’analisi di Fabrizio Minniti, già consigliere politico del vicecomandante della missione Nato Resolute Support in Afghanistan

L’Afghanistan occupa il cuore dell’Asia e, nonostante la sua morfologia impervia per la presenza delle catene montuose dell’Himalaya, dalle steppe a Nord e degli altopiani a Ovest, è un potenziale gateway per i Paesi dell’Asia centrale, ricchi di risorse minerali, ma privi di sbocco sul mare. Tuttavia le instabilità regionali, nonché le rivendicazioni afgane sulla linea Durand, hanno ostacolato l’integrazione.

L’Afghanistan dispone di grandi risorse minerarie (oro, argento, piombo, ferro, rame), di pietre preziose (lapislazzuli, smeraldi, rubini) e di importanti giacimenti di gas naturale. Tra il 2005 ed il 2007, il Pentagono ne aveva mappato la superficie con un aereo della Nasa; le stime indicavano riserve minerarie di valore superiore a 900 miliardi di dollari e la presenza dei cosiddetti “Rare Earth Element”, utilizzati nella produzione di superconduttori, magneti, laser e litio per batterie di smartphone e computer. Tali minerali sono presenti anche nei giacimenti di oro, argento, rame, piombo e ferro. Uranio è stato trovato nella miniera d’oro di Badakshan, a Haji-Gak, nelle miniere di Daykundi e di Dusar-Shaida.

L’Afghanistan ha quindi un potenziale economico enorme, ma l’assenza di infrastrutture, di impianti di raffinazione, per il conseguente inserimento nel ciclo produttivo, ne hanno ostacolato le ambizioni economiche. L’economia, attuale, è quasi totalmente basata sugli aiuti dei donor internazionali.

La Cina considera l’Afghanistan snodo cruciale all’interno del suo progetto di connettività regionale, la Belt and Road Initiative; nel 2017 il volume degli scambi bilaterali era di 544 milioni di dollari.

La strategia di Pechino si muove su una duplice direttiva: stabilizzare l’area e normalizzare i rapporti interstatuali della regione, attraverso attività di mediazione politica e promuovendo gli scambi con gli altri attori politico-economici dell’area. Rientrano, in queste iniziative, il gasdotto che collega Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan e India e la linea ferroviaria per collegare Herat al porto iraniano di Chabahar.

Il percorso della Belt and Road Initiative, inizialmente, non coinvolgeva l’Afghanistan. Tuttavia, nel 2016, Cina e Afghanistan hanno firmato un memorandum d’intesa per integrare il Paese nello sviluppo infrastrutturale. Due progetti ferroviari, una sino-afgano e quello delle “Cinque nazioni” mirano a sviluppare l’interconnettività e l’intermodalità mediante corridoi transregionali, strategici per la maggioranza dei Paesi landlocked.

Per la Cina è cruciale il corridoio Wakhan nella provincia di Badakhshan, la regione, montuosa e inospitale, rappresenta uno snodo cruciale per entrambi i Paesi, oggetto anche di colloqui tra il presidente Ashraf Ghani e l’omologo cinese Xi Jinping. Le difficoltà di interconnessione si sarebbero dovute risolvere (condizionale d’obbligo con l’ascesa dei talebani) tramite infrastrutture ferroviarie per facilitare il trasporto dei prodotti minerari verso i porti regionali (come quello di Chabahar, così determinante da non essere stato sottoposto alle sanzioni statunitensi contro l’Iran).

Gli investimenti maggiori di Pechino, circa 3 miliardi di dollari tramite la Metallurgical Corporation of China, riguardano le miniere di rame di Aynak e tre giacimenti petroliferi presso il bacino del fiume Amu Darya, nel Nord dell’Afghanistan, con un investimento iniziale pari a 400 milioni di dollari da parte della China National Petroleum Corporation e diritti di esplorazione per 25 anni. Investimenti che, da soli, potrebbero generare entrate fiscali e indotto superiore a 7 miliardi di dollari. Una stima per difetto considera la miniera di Mes Aynak il secondo più grande giacimento di rame al mondo, con circa 5,5 milioni di tonnellate di minerale di alta qualità. Nelle previsioni dell’accordo, rientravano l’utilizzo di manodopera afgana per le procedure di estrazione e lavorazione dei minerali, la costruzione di una centrale a carbone da 400 MW e di una ferrovia verso i porti a secco di Torkham.

A oggi, poco è stato fatto. Il consorzio cinese avrebbe addotto, come causa principale dei ritardi dei lavori, il peggioramento delle condizioni di sicurezza della zona che, tuttavia, non è mai stata obiettivo degli insorti. I talebani hanno infatti dichiarato di non avere intenzione di mettere a rischio la sicurezza di Mes Aynak. Il progetto si scontra con le carenze infrastrutturali e con significative difficoltà di tipo logistico: le quantità di carbone reperibili nell’area non sono sufficienti per alimentare la centrale elettrica, mancano le infrastrutture per gli approvvigionamenti e i fosfati necessari per il processo di fusione del rame. Il consorzio cinese ha quindi chiesto modifiche al contratto, in cui non sarebbero più previste la costruzione della centrale a carbone, il rifornimento dell’energia in eccesso verso la rete nazionale e la realizzazione di infrastrutture per stimolare il settore minerario.

La persistente instabilità afgana ha costretto la Cina ad assumere un ruolo politicamente dinamico. La Cina ha dapprima spinto Afghanistan e Pakistan a riprendere i colloqui diplomatici, ha contribuito al dialogo intra-afgano tra i talebani e il governo di Kabul e ha, inoltre, chiesto alle autorità afgane di aderire al corridoio economico Cina-Pakistan. Eventualità che potrebbe includere anche ad una presenza militare nel corridoio di Wakhan, ipotesi quanto mai realistica considerando il ritiro Nato dall’Afghanistan.

La Cina ha sempre negato di pianificare una base militare in Afghanistan e ha motivato i movimenti di truppe in Tagikistan e nella provincia afgana di Badakhshan, che confina con il Tagikistan a Nord e con la Cina a Est, con l’esigenza di svolgere esercitazioni antiterrorismo. Considerando però il forte interesse politico e il potenziale economico afgano, non è da escludere che Pechino si accordi con i Taliban per una presenza militare, inizialmente deputata alla sola tutela degli investimenti effettuati nel Paese.



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