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In Cina la crisi energetica ferma Apple e Tesla. Ecco perché

Di Lorenzo Santucci

Le limitazioni sui consumi e la carenza di carbone hanno ripercussioni anche nell’industria, costretta a interrompere la produzione per qualche giorno. Al momento, si tratta di un campanello d’allarme. Ma Pechino deve prepararsi adeguatamente se vuole evitare problemi più grandi nella transizione green

La crisi energetica che sta vivendo la Cina, neanche a dirlo, ha ripercussioni dirette sul settore industriale. La scarsità del carbone, la cui alta richiesta ha fatto impennare il prezzo a livelli record, sommata alle restrizioni per contenere le emissioni appena entrate in vigore hanno costretto i fornitori di Apple e Tesla a interrompere la produzione per qualche giorno proprio nella stagione più fiorente per i prodotti elettronici.

Domenica l’Apple Unimicron Technology Corp ha reso noto che due sue filiali cinesi sarebbero rimaste ferme da mezzogiorno di domenica 26 settembre fino alla mezzanotte del 30, in modo tale da “conformarsi alla politica di limitazione dell’elettricità dei governi locali”. Anche la Concraft Holding Co, che rifornisce Apple con prodotti acustici per i suoi I-phone, ha deciso di sospendere la produzione fino a giovedì. Un giorno in meno della Eson Precision Ind Co, affiliata della multinazionale Foxcon – la più grande al mondo tra quelle che producono componenti elettrici ed elettronici per gli OEM – con sede a Taiwan, che da ieri ha stoppato la sua attività nella città di Kunshan e la riprenderà a partire da venerdì.

Eppure proprio da Taipei cercano di tranquillizzare, limitando l’entità degli impatti che questo blocco provocherà sulla produzione industriale. “La fabbrica Hejian di UMC a Suzhou è attualmente in funzione a pieno utilizzo della capacità di oltre 80.000 wafer al mese”, ha dichiarato l’azienda di semiconduttori United Microelectronics Corp. La Foxcon ha confermato questa linea, sostenendo che in nessun altro centro della Cina si sono riscontrati impatti negativi come a Kunshan, comunque gestibili e di poco conto. La State Grid Corporation of China, società che distribuisce l’energia nel Paese, ha garantito che “farà di tutto per combattere la battaglia per garantire l’approvvigionamento energetico” alle persone.

La chiusura ha riguardato le industrie ad alta intensità energetica – per intenderci, quelle che lavorano con l’alluminio, l’acciaio, cemento e fertilizzanti, ma anche mobili, coloranti e prodotti chimici – costrette a fermarsi nelle ore di picco, per qualche giorno durante la settimana o, ancora, per periodi più lunghi. Ma la crisi non ha colpito solo il settore lavorativo. Molte famiglie, specie nella parte nord-orientale del Paese, sono state invitate a porre più attenzione sui loro consumi energetici, con un utilizzo più responsabile di scaldabagni e forni a microonde.

Seppur la crisi energetica cinese sia cosa recente, è già da diversi mesi che il governo centrale cerca di mantenere bassi i livelli di consumo. A maggio, nella zona del Guangdong, si sono cercati di contenere date le temperature elevate e la produzione di energia idroelettrica inferiore rispetto alla media. Per Pechino si tratta di una delle aree più importanti per via delle esportazioni, ma problematiche simili sono state riscontrate in altre zone lungo la costa del Pacifico. Ancor prima, a marzo, le autorità della regione autonoma della Mongolia interna avevano imposto ad alcune fabbriche di limitare l’uso di energia così che la regione potesse rispettare i livelli di consumo prefissati.

Già, perché l’impulso è partito dallo stesso leader Xi-Jinping a fine dello scorso anno. Intervenendo a un vertice dell’Onu sui cambiamenti climatici, il segretario del Partito comunista aveva annunciato l’intenzione di ridurre di oltre 65% le emissioni di anidride carbonica per unità di prodotto interno lordo rispetto ai livelli del 2005. Un impegno che avrebbe visto la sua realizzazione entro la fine del decennio, nel 2030, anno in cui nel 2015 Xi-Jinping aveva preventivato una riduzione al massimo del 60-65%. Un bel passo avanti, insomma. L’annuncio seguiva il filone iniziato nel settembre dello scorso anno quando Xi, in video collegamento con l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, aveva previsto entro il 2060 una Cina a emissioni zero.

Così tutte le regioni cinesi sono state chiamate ad adeguarsi, perché “la Cina onora sempre i suoi impegni”, come aveva chiarito al mondo il segretario a fine 2020. Al momento però, secondo la National Development and Reform Commission (NDRC), sarebbero un terzo le regioni in linea con i nuovi parametri. Per far sì che anche le altre possano riuscirci, la NDRC ha previsto pene più severe e si interfaccerà con le autorità locali per risolvere i problemi specifici (una giustificazione sul non rispetto dei livelli è data dalla grande domanda industriale che ha ricevuto il Paese nell’ultimo anno).

Tuttavia, la svolta non si limita al solo panorama interno. Essendo la Cina uno dei Paesi più inquinanti al mondo, qualsiasi scelta presa da Pechino in termini ambientali ha una ripercussione sul resto del pianeta. Per di più, la volontà di porre fine alla costruzione di centrali a carbone all’estero rappresenta “uno degli sviluppi più significativi di quest’anno sul fronte del clima, perché potrebbe anche segnare la fine del finanziamento pubblico internazionale per le centrali a carbone”, come ha dichiarato Christine Shearer, direttrice del programma carbone della Ong Global Energy Monitor (GEM).

Progetti a lungo termine, dunque, ma che si scontrano con la realtà odierna. Il prezzo del carbone è ai record dopo la stretta sulle emissioni, la sua continua e grande richiesta, oltre al limite alle importazioni. Il secondo esportatore al mondo, infatti, è quell’Australia che ha fortemente diminuito il suo flusso con Pechino. Negli ultimi anni il rapporto tra i due è peggiorato notevolmente. Nel 2018 Canberra ha escluso Huawei dalla sua rete 5G, due anni più tardi ha chiesto un’inchiesta per verificare l’origine del Covid-19 e, da ultimo – non di certo per importanza -, l’alleanza in chiave anticinese Aukus, siglata con Regno Unito e Stati Uniti. Dinamiche che hanno infastidito non poco Pechino, chiamata a dare una risposta a una crisi energetica che al momento sembra solo mettere in allarme senza generare panico, ma che deve insegnare in vista di una inevitabile quanto dolorosa transizione green.

 

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