Secondo gli esperti la conferenza di Glasgow a novembre sarà l’ultima chance per prevenire gli effetti più nefasti del riscaldamento globale. Ma la Cina, che già parte con obiettivi di decarbonizzazione insuffficienti, ha deciso di far leva sulla crisi climatica per alleviare la pressione geopolitica americana
Si è conclusa la visita in Cina di John Kerry, inviato speciale del presidente americano Joe Biden sul clima. Nella città settentrionale di Tianjin il diplomatico ha parlato, fisicamente e virtualmente, con una serie di ufficiali cinesi di alto profilo – tra cui il ministro degli esteri Wang Yi e il vicepremier Han Zheng – nella speranza di convincerli ad alzare il tiro sugli obiettivi di decarbonizzazione, in vista della prossima conferenza onusiana sul clima, la COP26 di Glasgow, in agenda per novembre. Non è andata troppo bene.
Pechino si è mostrata riottosa nel collaborare con gli Stati Uniti. Il motivo è ben espresso nelle parole dello stesso Wang. “Gli Stati Uniti sperano che il cambiamento climatico sarà l’oasi nelle relazioni Cina-Stati Uniti. Ma se l’oasi è circondata da deserti, l’oasi prima o poi diventerà sabbia”, ha detto il ministro degli esteri, girando la narrativa per incolpare la controparte americana.
“Gli Stati Uniti dovrebbero camminare verso la Cina, intraprendere azioni attive per riportare le relazioni bilaterali su binari normali”. Secondo Pechino Washington ha fatto un “errore strategico” nel pensare che la collaborazione sul fronte climatico possa esulare dal confronto geopolitico tra le due superpotenze. Nonostante la posizione americana (opposizione ove necessario, cooperazione sul clima) fosse stata ampiamente dichiarata sia da Kerry che dal presidente americano Joe Biden.
Un discreto voltafaccia. In occasione dell’ultimo confronto bilaterale sul clima dello scorso aprile, i due Paesi avevano rilasciato una dichiarazione congiunta in cui si impegnavano “a cooperare tra loro”, “potenziare le rispettive azioni” e “cooperare nel processo multilaterale” per combattere il cambiamento climatico. Il comunicato menziona specificamente l’appuntamento di Glasgow e assicura che Cina e Usa “coopereranno per promuoverne il successo […] mirando a completare l’implementazione degli accordi di Parigi”, il cui obiettivo dichiarato è limitare il riscaldamento globale entro 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali.
L’enfasi su COP26 non è casuale: secondo scienziati e politici (tra cui Kerry) è l’ultima chance per presentare obiettivi di decarbonizzazione aggiornati in grado di prevenire gli effetti più devastanti del cambiamento climatico. Oggi si stima che la Cina rilasci più gas serra di tutti i Paesi industrializzati messi assieme, il 27% a livello globale, che sale al 40% con le emissioni americane. Semplicemente, senza l’impegno di Washington e Pechino è impossibile raggingere gli obiettivi di Parigi. Tuttavia pare che la Cina abbia deciso di sfruttare la crisi più urgente del secolo per il proprio tornaconto.
Mentre i Paesi più sviluppati iniziano la transizione che li porterà a dimezzare le emissioni entro il 2030, Pechino intende continuare a produrre energia dal carbone (che oggi risponde al 60% del fabbisogno energetico nazionale) e costruire nuove centrali per non limitare la crescita economica.
Il presidente Xi Jinping ha promesso che il Paese toccherà l’apice delle emissioni nel 2030 e raggiungerà la neutralità carbonica nel 2060, dieci anni dopo i Paesi dell’Occidente geopolitico. Cosa che, secondo la comunità scientifica (l’Ipcc e l’Iea in particolar modo) impedirà al mondo di raggiungere gli obiettivi di Parigi.
Sulla via del ritorno Kerry ha riportato le posizioni cinesi. Pechino vuole che gli Usa tolgano le sanzioni sulla produzione di pannelli solari nella regione dello Xinjiang (imposte da Biden a giugno per via della possibilità, documentata, che il processo faccia uso di lavoro forzato). La questione è spinosa: non solo quei pannelli servono, come dice la stessa Cina, per la transizione energetica del Paese – che perciò nella sua lettura è osteggiata dalle sanzioni americane -, ma quella regione è responsabile per quasi tutta la fornitura globale di pannelli fotovoltaici.
Ma lo zar del clima americano non è del tutto sfiduciato. “In diplomazia, non sempre ottieni tutto quello che vuoi in un colpo solo […] Abbiamo fatto dei progressi, questa è la linea di fondo”, ha detto al Washington Post definendo i confronti “produttivi”. Kerry ha menzionato il piano di decarbonizzazione che gli ufficiali cinesi stanno ancora mettendo a punto e ha aggiunto di sperare che la Cina, senza la quale “non c’è modo” di fronteggiare la crisi, accolga le richieste americane di aggiornare gli obiettivi di decarbonizzazione.
Secondo l’agenzia cinese Xinhua, il vicepremier Han ha detto a Kerry che la Cina “spera che la parte americana creerà le circostanze appropriate per affrontare insieme il cambiamento climatico sulla base dello spirito delle conversazioni tra i leader”. L’ufficiale cinese avrebbe evidenziato i “grandi sforzi” e i “risultati notevoli” del processo di transizione cinese. Ma i numeri non mentono, la propaganda non decarbonizza. Appuntamento a Glasgow.