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Chi paga per il Covid? Scrive Pennisi

La destrutturalizzazione del mercato del lavoro, verificatasi con la recessione scatenata dalla pandemia, ha provocato un abbassamento dei salari d’ingresso che ha aumentato le disfunzioni del mercato del lavoro, specialmente in quella parte del terziario (come il turismo) che offre impiego stagionale. Le implicazioni più preoccupanti sono nel medio e lungo termine: le conseguenze della contrazione dell’occupazione e dei redditi sulle pensioni. L’analisi di Giuseppe Pennisi

Nei giorni in cui i no vax, no mask, no green pass (stimati meno del 5% dell’elettorato, ma molto rumorosi e in certi casi anche minacciosi) si agitano perché le misure atte a evitare una nuova ondata della pandemia non limitino quelle che considerano le loro libertà personali, è utile riflettere chi sta davvero pagando i costi del Covid in Italia e, ove possibile, cosa fare per ridurli.

In primo luogo, i circa 130mila deceduti, in gran misura anziani e infettatisi prima che i vaccini diventassero operativi. In secondo luogo, le giovani generazioni colpite dalla recessione, dalla destrutturalizzazione del mercato del lavoro, dalla riduzione della qualità dell’istruzione (a ragione di una didattica a distanza in cui gli insegnanti non sono stati addestrati e in contesto in cui reti e disponibilità di computer/tablet sono molto differenziate).

Sin dal discorso programmatico in Parlamento, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha posto l’accento sulla priorità da dare all’istruzione per lenire parte dei costi del Covid sui giovani. È ora disponibile un’analisi della Confcommercio intitolata “Le giovani generazioni in Italia dopo la pandemia” che approfondisce gli aspetti del mercato del lavoro e del futuro previdenziale della classe di età (i giovani tra i 15 ed i 34 anni) più colpita dagli effetti del Covid, se non in termini di contagi a ragione delle prospettive occupazionali e previdenziali.

Il quadro era già grave prima della pandemia: tra il 2014 e il 2019, in Italia i giovani lavoratori dipendenti sono diminuiti del 26,6%, quelli autonomi del 51,4%. Essere lavoratore autonomo vuol dire essere imprenditore, quanto meno di se stesso, attività che in Italia è molto ardua. Già prima della pandemia, molti italiani in età tra i 18 e i 39 anni hanno scelto la via dell’estero (345.000 tra il 2009 ed il 2019, secondo i dati delle cancellazioni anagrafiche dai comuni).

In questo contesto si sono inseriti gli effetti economico-sociali della pandemia. È cresciuto il numero dei Neet – giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano, non sono in formazione -, numero che ha superato i 2 milioni rendendo il Paese quello con l’incidenza più alta nell’Unione Europea (Ue). Rappresentano un capitale umano lasciato senza prospettive di lavoro e di reddito. Il tasso di disoccupazione giovanile ha superato il 18% – ben quattro volte quello rilevato dalla Repubblica federale tedesca. Soprattutto, la destrutturalizzazione del mercato del lavoro, verificatasi con la recessione scatenata dalla pandemia, ha provocato un abbassamento dei salari d’ingresso che, con l’avvio quasi simultaneo di una misura come “il reddito di cittadinanza”, ha aumentato le disfunzioni del mercato del lavoro, specialmente in quella parte del terziario (come il turismo) che offre impiego stagionale.

Le implicazioni più preoccupanti sono nel medio e lungo termine: le conseguenze della contrazione dell’occupazione e dei redditi sulle pensioni. Sotto il profilo aggregato del rapporto della spesa previdenziale sul totale della spesa pubblica, ci sarà una tendenza crescente sino al 2045 (quando le giovani generazioni di oggi non avranno titolo di andare a riposo) a ragione del pensionamento in parte decrescente con il sistema retributivo delle coorti dei baby boomers per poi ridursi gradualmente sino al 2070 quando il calcolo delle spettanze verrà fatto con il metodo contributivo. Ciò è un segno positivo sotto il profilo della spesa pubblica, ma vuol dire che le giovani generazioni dell’epoca del Covid avranno titolo a pensioni pubbliche bassissime, in gran misura inferiori al cosiddetto “reddito di cittadinanza”. Ciò comporterà una riflessione sulla spesa sociale (che oggi assorbe il 56% della spesa pubblica italiana) ed è orientata in gran misura verso le classi di età anziane.

Una riflessione che è bene inizi subito, modificando drasticamente il “reddito di cittadinanza” e rivedendo il sistema pensionistico prevedendo i) uno zoccolo duro finanziato dalla fiscalità generale, ii) una parte correlati ai contributi versati e iii) una componente di previdenza complementare/integrativa da incentivare, non penalizzare come previsto nella bozza di riforma tributaria.

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