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Il Regno Unito inciampa sulla privacy. Cosa dice l’inchiesta del Guardian

Di Lorenzo Santucci

L’utilizzo espansivo dei dati personali è un pericolo di difficile gestione, come la costruzione di un profilo standard di criminale informatico in base ad alcune ricerche o operazioni online, anche quando se ne fa un uso virtuoso. Secondo gli esperti sentiti dal Guardian, “anche se questi approcci possono avere alcuni impatti positivi per ridurre i danni, siamo preoccupati per le potenziali gravi conseguenze impreviste”

Una nuova governance, improntata sull’utilizzo dei dati personali sensibili, con l’obiettivo di influenzare il comportamento dei cittadini. Sarebbe questa la politica portata avanti nel Regno Unito, che ha utilizzato le pubblicità sui motori di ricerca e sui social network per indirizzare il modo di comportarsi generale per la prevenzione della criminalità, della salute e della politica sociale. La notizia arriva dopo le analisi condotte dallo Scottish Centre for Crime & Justice Research (SCCJR), il cui rapporto è stato ripreso dal Guardian, dove viene spiegato come questo modo di agire sia frutto del connubio tra la teoria del nudge – basata sull’influenza degli aiuti indiretti – entrata nel processo decisionale e il ruolo delle pubblicità online, in ascesa con l’espansione dei social.

La campagna si pone l’obiettivo di educare, specie i più giovani, nell’adottare comportamenti sani all’interno della comunità in cui vivono. Consigli, quindi, che variano da quelli più seri ad altri più frivoli. Tra i primi, i ricercatori hanno riscontrato dei messaggi volti alla dissuasione nel diventare criminali online. Il programma viene appunto definito “Cyber-Prevent” e rientra in un lavoro della National Crime Agency, durato sei mesi, che ha previsto sorveglianza, intervento indiretto e messaggi pubblicitari su internet per prevenire questa pratica. Alcune delle misure, tra l’altro, hanno una natura estremamente radicale. Una di queste è la politica “knock and talk”, letteralmente “bussare e parlare”, secondo cui i funzionari dell’Agenzia si recano direttamente nelle case per discutere con i genitori dell’adolescente da riportare sulla retta via. In tal modo, si tenta di ricostruire il modello di un soggetto a rischio, fortemente propenso ad attività legali, che può essere utilizzato da esempio per gli altri nell’ambito della campagna di sensibilizzazione con pubblicità mirate.

Le operazioni, però, riguardano anche altre tematiche. Per ridurre i rischi di incendio all’interno delle case, tanto per dirne una, si è seguito quello che il ricercatore dell’Università di Edimburgo, Ben Collier, ha definito il percorso più logico. Nel momento in cui la maggior parte degli acquisti vengono effettuati su Amazon, i dati di acquisto vengono presi per poi essere utilizzati in altro modo. “Fondamentalmente”, ha dichiarato il ricercatore, “li hanno raccolti in modo che, se avessi comprato candele o fiammiferi, sarebbero stati utilizzati per indirizzarti con annunci audio su Amazon Alexa, con suggerimenti sulla sicurezza antincendio. Quindi compri le candele quando sei fuori, torni a casa e il tuo Alexa inizia a darti consigli”.

Insomma, questo tipo di utilizzo dei dati personali sembrerebbe avere uno scopo ben preciso, perfino etico se confrontato con gli altri fini a cui viene legata questa pratica. Eppure, i ricercatori hanno lanciato un allarme congiunto. In primo luogo, il fatto che queste campagne vengano esternalizzate ad agenzie esterne non rende merito alla funzione della politica, dato che si tratta di “interventi politici in prima linea e devono essere visti come tali e sottoposti allo stesso dibattito pubblico, controllo e responsabilità di altre politiche simili”, sostengono. Così si rischia di ottenere “il duplice effetto di aprire gli spazi intimi dei cittadini per il controllo statale e ampliare le fonti dei dati utilizzate dal governo per indirizzare la politica”.

In sostanza, quello che Collier e gli altri suoi colleghi sostengo a gran voce è il problema alla base della privacy. L’utilizzo espansivo dei dati personali è un pericolo di difficile gestione, come la costruzione di un profilo standard di criminale informatico in base ad alcune ricerche o operazioni online, magari di persone che vivono in contesti già di per sé disagiati. “Anche se questi approcci possono avere alcuni impatti positivi per ridurre i danni, siamo preoccupati per le potenziali gravi conseguenze impreviste. Ciò può includere la stigmatizzazione di gruppi che già affrontano l’oppressione strutturale attraverso il targeting e la sorveglianza, causando ansia o danni potenzialmente gravi. O, in alcuni casi, queste pratiche potrebbero potenzialmente avere l’effetto opposto a quello previsto”.

Quello di cui c’è bisogno sono “risposte a questioni legali ed etiche sulla selezione di particolari gruppi, sull’uso di dati operativi per informare queste campagne, sulle preoccupazioni della privacy e sui diritti dei dati e gli aspetti algoritmici del targeting stesso, i dati su cui questo si basa e genera”, ha sottolineato il dottor Daniel Thomas dell’Università di Strathclyde, la cui firma compare nel rapporto. “Sebbene la nostra ricerca e il documento informativo si concentrino sulle forze dell’ordine del Regno Unito e sui dipartimenti governativi”, ha continuato, “abbiamo recentemente acquisito finanziamenti per studiare ulteriormente questi problemi nel contesto scozzese”.

Il tentativo di influenzare i comportamenti cittadini non è una pratica nuova nel Regno di sua Maestà. Il tutto è iniziato diversi anni fa con la creazione del Behavioral Insight Team durante il governo di David Cameron. L’evoluzione tecnologica – in particolare sull’utilizzo dei dati sensibili, un tema delicatissimo e quanto mai attuale – ha infatti cambiato il paradigma della politica sociale. Quello che appena dieci anni fa poteva sembrare etico e giusto, oggi necessita di maggiore trasparenza.

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