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Difesa europea, non facciamoci illusioni. Scrive il gen. Tricarico

Più che da fantomatici quanto irrealistici eserciti europei bisognerebbe partire dalla definizione di una dottrina di impiego della forza, senza la quale non sarebbe possibile dare forma allo strumento relativo. Altrimenti si resta su dichiarazioni di intenti tanto vacue quanto ormai irritanti. Il commento del generale Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione Icsa, già capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare

In materia di “Sicurezza e Difesa” per l’Unione europea non esiste ancora una rotta lungo la quale potersi incamminare se l’ultimo accordo intergovernativo, condiviso nel Consiglio degli affari esteri del giugno 2020, va sotto il nome altisonante quanto meramente concettuale di “Strategic compass”, una bussola insomma cui metter mano per raccapezzarsi nel contesto specifico. È altrettanto lapalissiano che gli unici traguardi finora raggiunti siano le dichiarazioni di intenti tanto vacue quanto ormai irritanti, di governi, opinionisti, analisti e anche generali tutte concordanti, come un disco rotto, sulla necessità di una identità europea nel settore.

Bene ha fatto quindi il presidente Sergio Mattarella a bacchettare tutti e a richiamare alla concretezza chi ancora oggi per neghittosità o assenza di idee, o ambedue, continua a trastullarsi nella stucchevole quanto inconsistente attività assertiva. Singolare è anche la vaga percezione della complessità del problema, certamente a livello mediatico, ma, con le dovute differenze, anche a livello di opinione pubblica qualificata.

Pochi giorni fa, il 5 settembre, un pezzo di fondo di un quotidiano a larga diffusione dava la percezione precisa della inadeguatezza di chi orienta il sentire comune perfino a individuare i termini del problema: il giornalista, coerentemente al titolo dell’articolo (“Sommando le forze convenzionali di 27 Paesi si ottiene un’armata di primo piano”), faceva la somma aritmetica delle risorse militari dei Paesi membri per giungere alla conclusione che un esercito europeo è solo questione di metter mano a una semplice somma aritmetica; e che se quella somma si facesse oggi con i 27 eserciti europei, si potrebbe contare con uno strumento militare pari a quello degli Stati Uniti.

Nulla di più insensato. La testimonianza concreta più recente della ingenuità di tale approccio è il conflitto in Libia del 2011, quando la somma delle risorse dei Paesi partecipanti alle operazioni nulla poté contro la mancanza di numerose capacità militari, alcune della quali “abilitanti”, fornite poi come al solito dagli Stati Uniti a conflitto avviato e con le quali la macchina bellica poté finalmente iniziare a funzionare a regime.

Ciò da cui oggi invece bisognerebbe iniziare è la definizione di una dottrina di impiego della forza, senza la quale non sarebbe possibile dare forma allo strumento relativo e al momento irreperibile in ogni esercito, nazionale o collettivo. Nessuna macchina bellica in altre parole è oggi in grado di affrontare con una tecnica operativa adeguata gli scenari di crisi in corso o potenziali, come quello afghano ad esempio.

Da qui dovrebbero partire i programmatori europei, senza lasciare come sta purtroppo accadendo, l’iniziativa nelle mani dell’industria del settore guidata da altri parametri di valutazione che non sono certo quelli di dotare un esercito con quello che serve. Su tutti, l’esempio del caccia di sesta generazione, un sistema non prioritario nella lista delle capacità, ma per altro verso molto remunerativo per le grandi industrie altrimenti sprovviste di progetti ad alta redditività. Per rimanere nel dominio specifico, altre sarebbero le capacità necessarie, quelle ad esempio di aeromobili ad alta permanenza sugli obiettivi; per dirla in sintesi, droni, cannoniere volanti, convertiplani, elicotteri. Oltre alle piattaforme C4/Istar (Comando, controllo, comunicazioni e computers / Intelligence target aquisition and reconnaissance), in aggiunta alle capacità satellitari nelle diverse declinazioni e così via.

Sotto il profilo politico concreto infine, pare ormai inevitabile rompere gli indugi e adire alla cosiddetta doppia velocità: abbiamo visto in altri ambiti quanto la recalcitranza di qualche Paese membro possa ostacolare il raggiungimento di una visione e di uno strumento comune. Fuori di metafora, Italia, Francia e Germania mettano a punto un percorso condiviso (incardinato a una politica estera comune) sul quale incamminarsi, gli altri aderiscano o ne restino fuori, purché la macchina cominci finalmente a girare.


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