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I frutti amari di Brexit. Tutti i dolori tra Regno Unito e Ue

Gli scaffali sono vuoti, mancano lavoratori, la relazione con Bruxelles va maluccio, i controlli burocratici stanno per aumentare e già si registrano danni economici. Una breve guida alle scosse di aggiustamento post-Brexit

McDonalds non ha più milkshake. Nando’s e KFC sono a corto di pollo. Non sono certo avvisaglie dell’apocalisse, però questi titoli apparsi nel Regno Unito le scorse settimane alludono a un problema in piena espansione, come testimoniano le foto di scaffali dei supermercati vuoti.

L’impatto di Covid-19 e Brexit si riverbera su tutta la lunghezza delle catene di distribuzione britanniche. In particolare, il nuovo sistema di immigrazione a punti di Londra- pensato per restringere l’accesso ai lavoratori meno qualificati – sta causando una grave carenza di personale in settori essenziali.

A questo si aggiungono i problemi alle supply chain globali (indotti anche dalla pandemia) e alla burocrazia figlia di Brexit, che è destinata a gravare sempre di più sui commercianti da ambo le parti. Tra visti, controlli al confine e conflitti tra Londra e Bruxelles, ecco la mappa di una crisi in divenire.

Se mancano i low-skilled workers

Le autorità industriali hanno comunicato che mancano 90,000 autotrasportatori. Non è solo colpa dell’esodo di europei tornati al loro Paese di origine; oggi, per un lavoratore europeo, è molto più difficile lavorare in UK sia come stagionale che come residente.

Questo problema si sente anche in altre industrie, tra cui agricoltura, assistenza, sanità, costruzioni e ospitalità, tutti settori che si appoggiavano sull’afflusso di lavoratori europei detti “low-skilled” (ma quanto mai essenziali per il funzionamento del sistema-Paese).

Le più grandi associazioni industriali del Paese hanno scritto al governo di Boris Johnson per chiedere l’approvazione di visti speciali, ma finora la risposta istituzionale è incoraggiare l’assunzione di lavoratori inglesi (che non si trovano) e allentare alcune restrizioni sulle ore lavorative. Tra coltivazioni lasciate a marcire e un surplus di bestiame che dovrà “essere incenerito”, è lecito dire che l’approccio di Downing Street non sembra aver funzionato.

La crisi del personale va di pari passo con i colli di bottiglia nelle supply chain globali (che impattano anche il resto del mondo, dalle materie prime ai semiconduttori, anche per via della pandemia) nonché il progressivo moltiplicarsi dei controlli doganali, il problema al centro di un duello tra Londra e Bruxelles che – dice il capo negoziatore di Brexit David Frost – rischia di creare un clima di “fredda diffidenza”.

Il nodo del Protocollo dell’Irlanda del Nord

Con Brexit i britannici hanno deciso di rompere anche con il mercato comune europeo, dove gli standard condivisi permettono alle merci di muoversi senza controlli e procedure doganali (o quasi). Per non creare una barriera doganale tra Irlanda (Europa) e Irlanda del Nord (Regno Unito) le due parti adottato il Protocollo dell’Irlanda del Nord, il quale prevede che la regione rimanga nel mercato comune e i controlli doganali avvengano nel Mare Irlandese (tra i porti britannici e irlandesi).

Quest’estate Bruxelles ha avviato, e poi sospeso (nello spirito della diplomazia), una serie di azioni legali contro il Regno Unito. Il motivo? Di fronte alle difficoltà burocratiche, fisiche (mancano le strutture per i controlli) e futuribili nello spostare prodotti tra Regno Unito ed Europa, Londra non ha rispettato il Protocollo ed esteso unilateralmente il “periodo di grazia” in cui le merci potevano muoversi tra le due realtà senza ostacoli burocratici, evitando di imporre i propri controlli.

Adesso Johnson chiede di rinegoziare il Protocollo (già firmato dicembre scorso) e la Commissione europea, pur aprendo al dialogo, non ne vuole sapere. Le due parti hanno acconsentito a un periodo di stallo per consentire le discussioni. Per ora l’impasse aiuta a non aggravare la situazione, ma i limiti delle estensioni britanniche si avvicinano (rispettivamente 30 settembre, 30 dicembre, 31 marzo 2022).

Gli unionisti nordirlandesi, avversi al Protocollo, hanno già avvertito che ci saranno “seri problemi” se i periodi di grazia non verranno estesi nuovamente; quello che succederà, secondo diversi esperti, anche a costo di inimicarsi ulteriormente l’Europa.

Tra burocrazia e ferri corti

Tutto questo si aggiunge all’ondata di burocrazia che è diventata la nuova realtà per coloro che commerciano tra UK e Ue. Diversi importatori sentiti da Euronews hanno parlato di dilatazione dei tempi di consegna (da 14 a 52 giorni in media per un importatore britannico di olio) e di costi maggiorati.

Europei e britannici sono concordi nel dire che la fine dei periodi di grazia porterà ancora più burocrazia e spese. Persino il Mail on Sunday, giornale molto allineato coi Brexiteers e il governo Johnson, si è scagliato contro “la maledizione della burocrazia di confine”.

Intanto la Fdea (associazione degli esportatori di cibo e bevande britannici) ha pubblicato un rapporto in cui l’impatto sul commercio con l’Europa è dolorosamente evidente: meno 15,9 per cento nella prima metà del 2021 rispetto al 2020 (e meno 27,4 per cento rispetto al 2019). Un aumento dell’export verso Paesi extra-Ue non è bastato a bilanciare le perdite complessive (meno 4,5 per cento).

“La ricerca di soluzioni è stata ostacolata da difetti fondamentali”, ha scritto la Commissione sul Protocollo della House of Lords: “mancanza di chiarezza, trasparenza e prontezza da parte del Regno Unito; mancanza di equilibrio, comprensione e flessibilità da parte dell’Ue”. Ma andrebbe anche detto che il Protocollo è stato firmato da ambo le parti, e che Bruxelles si sta limitando a chiedere di rispettarlo.

Londra accusa Bruxelles di “purismo legale” e chiede fiducia. Per metterla come l’Irish Times, “Johnson chiede all’Ue di accettare un sistema basato sulla fiducia, ma la fiducia scarseggia quando si tratta di un primo ministro che ha mostrato poche prove di agire in buona fede”.



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