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Il futuro dopo l’11 settembre. Così gli Usa guardano avanti

A venti anni dall’11 settembre 2001, l’amministrazione Biden, seriamente impegnata sul versante interno in un massiccio e controverso New deal di rilancio, sembra aver riassorbito lo shock dell’attentato e dei suoi effetti distorsivi sul terreno delle priorità e delle policy per restituire all’occidente iniziativa e coesione nella gestione delle proprie responsabilità globali

Articolo tratto dal numero 172 della Rivista Formiche

Contesto e prospettiva sono, insieme ai soggetti e alle crisi, le dimensioni essenziali di qualsiasi seria analisi politica e strategica. A venti anni dall’11 settembre 2001 quell’evento va valutato nel contesto più ampio dei dieci anni che lo hanno preceduto, cioè dal collasso dell’Urss nel 1991 e dei venti anni che lo hanno seguito: il panorama mondiale odierno. Ovviamente al centro di questa ricognizione si collocano gli Stati Uniti, con il bilancio delle dinamiche del dopo Guerra fredda, delle iniziative di cui sono stati protagonisti, degli effetti interni sulla società americana e di quelli su scala globale.

Negli anni 90 il trionfo nella Guerra fredda aveva fatto degli Usa quella che era allora definita “l’unica superpotenza rimasta”, l’iperpotenza secondo la definizione di Hubert Védrine. È quindi naturale chiedersi come dalla prospettiva di un mondo unipolare, costruito sul corollario della globalizzazione finanziaria, tecnologica e strategica, si sia giunti trent’anni più tardi a un confuso panorama multipolare – o apolare – dominato da continui allarmi per nuove minacce sia tematiche, sia geopolitiche.

La risposta va ricercata nella debolezza della governance internazionale con la connessa crisi del metodo e delle istituzioni multilaterali e nella vulnerabilità delle leadership che negli Stati Uniti si sono succedute tra forti tensioni interne e spirali di reciproco rigetto, da Clinton a George W. Bush, da Obama a Trump. La dilatazione delle responsabilità mondiali degli Stati Uniti è stata pertanto gestita in un caleidoscopio di mutevoli priorità, a partire dall’ambiguo rapporto con il radicalismo islamico e i suoi referenti statuali che era stato funzionale alla disfatta sovietica in Afghanistan, al confronto con la Russia sull’allargamento della Nato a est fino all’allarme per la sfida globale cinese dopo la prematura e ottimistica ammissione di Pechino al Wto.

L’11 settembre ha scosso certezze e ha al tempo stesso mobilitato energie nella guerra al terrorismo, provocando una febbrile metamorfosi della nozione stessa di politica estera in quella di sicurezza nazionale. Eventi come la campagna in Afghanistan, che dopo vent’anni volge al termine con un bilancio a dir poco deludente, quella in Iraq che ha, tra l’altro, alimentato l’influenza dell’Iran nella regione e prodotto da ultimo il fenomeno Isis, oggi proiettato nel Sahel, infine le cosiddette Primavere arabe che hanno riciclato spezzoni di al Qaeda e soprattutto i Fratelli musulmani contro alcuni regimi autoritari secolari offrono una sequenza di fatti spesso dettati da improvvisazione e miscalculations.

Per quanto riguarda l’altro pilastro dell’occidente va detto che l’assenza della Pesc (Politica estera e di sicurezza comune) – tra il velleitarismo francese, il mercantilismo tedesco e l’indifferenza britannica – è stata speculare al descritto unilateralismo oscillante delle varie presidenze americane degli ultimi trent’anni.

Il pessimo debutto europeo nella disintegrazione della Jugoslavia del 1991-92 era stato premonitore. L’Unione europea avviava il non agevole percorso germanocentrico di Maastricht e si rivelava presto incapace di gestire la crisi jugoslava secondo criteri di trasformazione democratica, favorendo viceversa la frammentazione ipernazionalista alimentata dal ritorno dei fantasmi della Seconda guerra mondiale. Gli Stati Uniti erano così chiamati a regolarne le due ultime fasi, quella bosniaca e quella kosovara, con assetti che hanno oggettivamente agevolato il rientro neo-ottomano a tutela delle popolazioni musulmane della regione balcanica.

La strada per le successive iniziative di Ankara in Siria e in Libia era così aperta. Oggi gli Stati Uniti sembrano essersi liberati delle ombre dell’11 settembre. Soprattutto sembrano aver fatto tesoro delle lezioni apprese circa l’identificazione delle priorità e il metodo per gestirle in quattro aree cruciali: il recupero di un rapporto di collaborazione con l’Ue; la ricerca di convergenze nelle dinamiche del Mediterraneo allargato e dei suoi nuovi protagonisti regionali; un rapporto “stabile e prevedibile” con la Russia, secondo la definizione di Biden e Blinken in riferimento al processo avviato nel vertice con Putin del 16 giugno a Ginevra; infine una politica attiva di contenimento della Cina sul terreno strategico, economico, commerciale e ambientale.

Nel complesso l’amministrazione Biden, seriamente impegnata sul versante interno a un massiccio e controverso New deal di rilancio economico e sociale anche per affrontare la sfida delle elezioni di mid term fra 16 mesi, sembra aver riassorbito lo shock dell’11 settembre e dei suoi effetti distorsivi sul terreno delle priorità e delle policy per restituire all’occidente iniziativa e coesione nella gestione delle proprie responsabilità globali.


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