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Green pass e dintorni, chi governa la nave in tempesta? La riflessione del prof. Corbino

Di Alessandro Corbino

Il dibattito innescato questi giorni sulla certificazione verde per Università, scuole, uffici pubblici e altre attività può spingere i decisori a procedere non in vista della “efficacia” delle loro decisioni, ma del grado di consenso che esse ricevono. E può spingere i comuni cittadini a guardare con sempre maggiore senso di liberazione a decisioni rapide, fondate sull’autorità. Ottime premesse entrambe per accelerare la fine delle nostre già deboli democrazie. Il commento di Alessandro Corbino, già professore ordinario di Diritto romano all’Università di Catania

Osservare la discussione che si conduce – nei media e nei talkshow – sul tema del giorno (green pass e dintorni) non induce a speciale ottimismo. Non tanto per la manifesta impossibilità che essa possa agevolare davvero decisioni in grado di sopire le contrapposizioni (o almeno l’asprezza che talora le connota). Quanto perché sintomo di una deriva del nostro costume politico che dovrebbe preoccuparci molto.

Le questioni in campo non hanno omogenea natura. Molte di esse esigono conoscenze (e soprattutto conseguenti competenze) che non tutti possediamo. Vale nel massimo ovviamente per le questioni relative a fatti di ordine scientifico-sanitario, ma vale anche per molte altre.

Già aderire (consapevolmente) alla vaccinazione esigerebbe capacità personale di “elaborazione” – più che di acquisizione – delle informazioni. Figuriamoci esprimerci sulla opportunità/utilità di imporre il vaccino. Dovremmo poter valutare il grado di rassicurazione sociale conseguibile. Un fatto che dipende, con evidenza, da informazioni (e dalla capacità di reagire consapevolmente ad esse) che sfuggono ai più di noi. Più che dalla diffusione assoluta – comunque certamente rilevante (se la copertura fosse totale il problema non potrebbe avere migliore astratta soluzione) – essa potrebbe dipendere piuttosto dallo specifico combinarsi (nella diffusione conseguita) dei molti fattori (presumibilmente) influenti sulla circostanza (categoria, in vario senso, di appartenenza: attività svolta, età, patologie e così via).

Allo stesso modo, anche le questioni di natura organizzativa (ritorno in presenza delle attività lavorative e scolastiche) chiamano in causa fatti ai quali non è possibile dare una risposta che non tenga conto di specificità di contesto, talune generali (quelle relative, ad esempio, alle dimensioni della comunità alla quale facciamo riferimento: una grande città o un piccolo borgo non sono la stessa cosa), altre specifiche (tipologia del lavoro da svolgere, qualità dello stesso, rilevanza per essa della relazione diretta, e così via).

Di tali specificità nessuno può essere informato così bene come colui che ha il compito di provvedere. La cui posizione “ordinante” (il direttore di un servizio amministrativo, un rettore universitario, un preside di scuola) non è (normalmente) legata ad una “preposizione” casuale. Presuppone una riconosciuta competenza astratta e una non meno rilevante esperienza vissuta. Chi scrive ha rivestito funzioni amministrative (non irrilevanti). Ma non saprebbe dire quale potrebbe essere una efficace organizzazione delle cose se non con riguardo a ciò di cui ha fatto esperienza.
Dovrebbe apparire un fatto di solare evidenza.

Non è così. Come sottolinea il dibattito in corso. Del quale troppi quotidiani animatori infiammano irresponsabilmente i toni. Eccitando pronunciamenti opposti ed esibendo continue contabilizzazioni di orientamenti (rilevati con i sondaggi) buone sicuramente a fare crescere i loro ascolti, non certo la “qualità” dei processi decisionali delle nostre democrazie contemporanee (il fatto che ne costituisce da decenni la principale ragione di crisi). Spingendo in definitiva i decisori – senza forse rendersene conto – a procedere (non tutti ovviamente e non tutti con lo stesso entusiasmo) non in vista della “efficacia” delle loro decisioni, ma del grado di consenso (emozionale, incolto ed improvvisato) che esse ricevono. E i comuni cittadini a guardare con sempre maggiore senso di liberazione a decisioni rapide, fondate sull’autorità (non è un caso osservare che il vaccino “obbligatorio” appaia una soluzione più accettabile del “green pass”). Sono ottime premesse entrambe per accelerare la fine delle nostre già deboli democrazie.

Nelle materie di cui parliamo non dovrebbe esservi alternativa. Operare sostenuti dal pensiero di coloro che hanno le dovute competenze. Non perché le loro opinioni non si espongano a limiti. Ma perché i confini di un loro (possibile) errore restano molto contenuti e controllati. Le rendono dunque (per noi incompetenti) più “affidabili” delle nostre dirette. Sono esposte (al contrario delle nostre) alle contestuali – integrative/correttive – opinioni che i loro “pari” esprimono in relazione agli stessi fatti. Non ci garantiscono. Ma ci proteggono dalle insipienze che ci stanno facendo precipitare verso un costume “democratico” come quello dal quale già Platone ammoniva di guardarsi. Diceva: in un momento di procella, non si può governare una nave chiamando i passeggeri a decidere cosa fare. Non sono Platone, ma osservo che siamo – mi pare – ormai al trionfo di una grande idea sessantottina: lo studente supera/non supera l’esame per il giudizio non del professore, ma degli astanti.

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