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Si chiude un ventennio di guerre, si aprono nuovi spazi di dialogo?

Di Sabir Badal Khan e Marco Ciaccia

La rinnovata attenzione per questo epicentro di tensioni in Asia sembra finalmente un buon viatico per archiviare letture superficiali, sintonizzate sulla paura, di cortissimo respiro – e aprire alla collaborazione internazionale. L’analisi di Marco Ciaccia, analista politico-culturale e Badal Khan, professore associato, Dipartimento Asia, Africa e Mediterraneo dell’Università di Napoli-L’Orientale

L’11 settembre è stato il casus belli per il 7 ottobre 2001, data che segna l’ingresso del tutto imprevisto e imprevedibile degli Stati Uniti e degli alleati europei nell’Afghanistan, il crocevia fra una potenza in imperiosa ascesa (la Cina), una in crisi di ridefinizione (la Russia) e una immobilizzata dai retaggi della storia (l’India). La Cina, che alzò un polverone internazionale per l’intervento sovietico del 1979, ma si mantenne in silenzio nel 2001, ora mostra viva preoccupazione per la stabilità alle sue frontiere occidentali.

La Russia nel ventennio che ha seguito l’11 settembre ha cercato di agganciare il treno della “guerra al terrore” e di definirsi come potenza antifondamentalista e “riserva strategica” dell’Occidente, tanto che la guerra in Siria contro Daesh può essere letta (o ne viene proposta la lettura) in continuità con le guerre del Caucaso. L’Europa si è liberata nel ciclo post-11 settembre di alcuni retaggi politici (autonomismo gollista, semi-neutralismo tedesco, terzomondismo franco-italiano) che non collimavano con la necessità strategico-militare di collaborare senza riserve con gli Stati Uniti a livello globale. Tanto le “identità” laico-giacobina quanto quella “liberal-occidentalista” vi confluiscono pur nell’apparente dialettica interna, anche in questo caso con una guerra “di fondazione”, quella in Libia nel 2011, a fare da svolta.

Se il Nord del mondo si assesta dopo gli eventi traumatici del ventennio, la frontiera mobile e dagli equilibri più instabili si sposta a Sud. Ora le ideologie che si fronteggiano non sono più capitalismo e comunismo, ma transizione contro tradizione. La prima eleva l’ideologia della transizione (ecologica, energetica, antropologica) a orizzonte sociale che le sovranità nazionali sono chiamate a realizzare, ridefinendo il perimetro dei diritti individuali e la sfera di intervento statale. La seconda rivendica “atavismi” religiosi, particolarmente nell’area mediorientale e nel subcontinente indiano.

All’incrocio tra queste due macroregioni, il ritorno dei Talebani al potere in Afghanistan apre prospettive inquietanti, ma non isolate al solo paese centroasiatico. La propaganda degli studenti coranici si rivolge in parte contro il Pakistan, che pure li ha sostenuti, ma soprattutto contro l’India. La vittoria islamista rende più complicata la gestione, spesso scriteriata e anch’essa non esente da fondamentalismi (questa volta di parte indù), della minoranza musulmana in India. Si prospetta un parallelismo con il vicino Oriente palestinese dove dopo il 2001 l’intervento di minoranze intransigenti e ben organizzate (Hamas ed Hezbollah) ha realizzato l’agenda teocratico-iraniana e smantellato l’intellettualità laica dell’OLP, immobilizzando la questione politica in una drammatica crisi umanitaria ai margini della metropoli israeliana. La quale, nel frattempo ridisegna un sionismo “etnico”, radicalizzando atavismi presenti, anche se minoritari, nello stesso sionismo originario, assai più di sinistra e perfino filoarabo di quanto oggi si ritenga.

Se lo stesso processo, con i talebani afghani e pakistani protagonisti, si dovesse realizzare nel subcontinente, ciò potrebbe segnare la rovina del Pakistan come lo è stato per la Palestina. Già vi sono segnali di una radicalizzazione avanzata della società pakistana. La differenza rispetto alla situazione palestinese risiede nell’interesse immediato della Cina a mantenere una qualche forma di stabilità sulle frontiere occidentali. Paradossalmente, una Pechino iper-pragmatica potrebbe spuntarla laddove un Occidente ideologico (e tutto sommato soddisfatto per la ritrovata unità interna) ha mollato la spugna: nei gangli vitali del Sud globale.

Ciò è accaduto perché, dopo l’11 settembre, forze politiche inadeguate in Europa e in America non hanno impedito la formazione di una Cortina di Ferro tra ideologie della transizione e della tradizione, mentre ciò di cui vi è bisogno è capacità di traduzione, di mediare e trovare nuovi linguaggi comuni. Solo con la comprensione reciproca e con lo sguardo multidimensionale (a sicurezza, cultura, tradizioni di ognuno) si può impedire un nuovo 11 settembre. La rinnovata e inedita attenzione per questo epicentro di tensioni in Asia sembra finalmente un buon viatico per archiviare un ventennio di letture superficiali, sintonizzate sulla paura, di cortissimo respiro – e aprirne uno nuovo di collaborazione internazionale.

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