Dopo Afghanistan e Aukus, ecco la prova di maturità per l’Ue nei Balcani occidentali. Josep Borrell e Ursula von der Leyen si muovono per bloccare l’escalation nel nord del Kosovo, dove la “guerra delle targhe” con la Serbia rischia di risvegliare il conflitto. Ma sul campo ci sono le truppe Nato della missione Kfor (al comando del generale Franco Federici) che aumentano i pattugliamenti
Rischio escalation nei Balcani occidentali, dove da una settimana è scattata la “guerra delle targhe”. L’Unione europea ha schierato i suoi massimi vertici, compresa Ursula von der Leyen, partita oggi per un tour nell’area. Sul campo ci sono le forze Nato della missione Kfor, che ha annunciato il potenziamento dei pattugliamenti.
Tutto è iniziato lunedì scorso, quando il governo del Kosovo ha inviato forze di polizia nell’area della frontiera con la Serbia per applicare la nuova normativa sulla circolazione. Prevede la possibilità di entrare nel territorio kosovaro alle sole auto provviste di targhe RKS (Repubblica del Kosovo). Per quelle registrate KS (Kosovo), come vuole la legge serba, è dunque obbligatorio l’acquisto di un visto provvisorio (5 euro per sessanta giorni) che consente di circolare con una targa diversa, RKS. Per il governo kosovaro la nuova normativa sulla circolare risponde al principio di “reciprocità”, considerando che la Serbia applica una misura simile, prevedendo per le targhe RKS in arrivo dal Kosovo l’obbligo di sostituzione alla frontiera con le targhe KS, previa apposita autorizzazione (3,5 euro per sessanta giorni).
Ovviamente. nell’acronimo utilizzato si nasconde il senso più profondo della storica disputa: l’indipendenza del Kosovo, che Belgrado non riconosce, considerando i confini di natura amministrativa. Da qui le proteste scattate nel nord del Paese già lunedì scorso, quando le forze di polizia kosovare hanno aumento la presenza nell’area di frontiera. A protestare alcune centinaia di cittadini serbo-kosovari, che hanno bloccato le strade della zona e i valichi di frontiera. Successivamente i fatti più gravi: l’incendio appiccato a un centro di registrazione di veicoli a Zubin Potok, e il lancio di due bombe a mano (non esplose) verso un simile centro a Zvecan. Albin Kurti, primo ministro del Kosovo e sostenitore della nuova normativa sulle targhe, ha subito affermato che i “gruppi” in questione “sono incoraggiati e sostenuti dalla Serbia”, con il rischio di “un grave conflitto internazionale”. Il ministro dell’Interno Xhelal Svecla ha parlato di “atti terroristici”.
E così Pristina ha ulteriormente rafforzato la presenza delle forze di polizia, con le unità speciali “Rosu” supportate da mezzi blindati. Di tutta risposta la Serbia ha fatto sorvolare l’area prima da tre elicotteri militari, poi (ieri) anche da due caccia MiG-29. In più, il ministero della Difesa di Belgrado ha fatto sapere di aver posto in stato di allerta i militari basati nelle strutture più vicine alla frontiera con il Kosovo. Video circolanti sui social mostrano colonne di carri armati che sarebbero in movimento verso l’area. Il ministro Nebojša Stefanović ha posto come condizione della ripresa del dialogo il ritiro delle forze speciali kosovare dal confine. Lo ha fatto visitando le forze serbe della zona insieme all’ambasciatore di Russia a Belgrado Alexander Botsan-Kharchenko, il quale ha accusato Usa e Ue di “chiudere gli occhi” di fronte alla crisi.
Nel frattempo si sono attivati i canali diplomatici. Il premier kosovaro Kurti ha sentito sia l’Alto rappresentante dell’Ue Josep Borrell, sia il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, ricevendo da entrambi l’invito alla de-escalation.
Di mezzo il botta a risposta all’Assemblea generale dell’Onu tra il premier albanese Edi Rama e la collega serba Ana Brnabic, con il primo ad affermare che “la sovranità del Kosovo è una realtà che dura da tredici anni e che tutti devono accettare”, e la seconda a sostenere che il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres le avrebbe assicurato “per noi il Kosovo non è uno Stato”. La questione è insoluta dal febbraio 2018, quando Pristina ha dichiarato la sua indipendenza. L’hanno riconosciuta un centinaio di Paesi (compresi Stati Uniti e Italia), ma non la Serbia (né Russia e Cina). Dal 2011 (e poi dall’accordo di Bruxelles del 2013) si lavora per una normalizzazione dei rapporti con la facilitazione dell’Unione europea.
Non sarà facile, e non solo per la questione delle targhe. La disputa sulla circolazione automobilistica è stata preceduta dalle dichiarazioni (il 14 settembre) del premier kosovaro Albin Kurti, con cui annunciava di aver pronta la denuncia per genocidio contro la Serbia davanti alla giustizia internazionale, per i crimini compiuti nel conflitto del 1998-1999. Un annuncio arrivato a margine di un incontro a Tirana con gli altri leader dei Balcani occidentali e Angela Merkel che, incontrando a margine il presidente serbo Aleksandar Vucic, ammetteva tutte le difficoltà del processo di normalizzazione.
La questione sembra comunque arrivare al momento giusto per una prova di maturità dell’Ue, che da settimane rilancia la necessità di maggiore “autonomia” e l’esigenza di una più efficace capacità di azione nel suo vicinato. Necessità alimentata dall’insofferenza mostrata per l’esito del ritiro dall’Afghanistan e per l’intesa Aukus, con la quale gli Stati Uniti hanno confermato di dirigersi verso interessi ritenuti più impellenti (l’Indo-pacifico).
L’Ue si è attivata difatti da subito con i suoi massimi vertici sulla nuova questione kosovara. Oltre alle chiamate di Borrell, oggi è iniziato il tour balcanico della presidente Ursula von der Leyen in vista del vertice Ue-Balcani occidentali in programma la prossima settimana in Slovenia. La presidente sarà nei prossimi giorni in Albania, Macedonia del nord, Kosovo, Montenegro, Serbia e Bosnia-Erzegovina. “Discuterà temi di sviluppo regionale e della specifica situazione dell’escalation tra Kosovo e Serbia”, ha detto la portavoce della Commissione europea Dana Spinant, nel briefing con la stampa. “La parola chiave è de-escalation, che è una responsabilità molto chiara per entrambe le parti”, ha aggiunto il portavoce per gli affari esteri, Peter Stano, aggiungendo che occorre “assicurarsi che tutti i passi siano intrapresi dai leader di entrambe le parti, Kosovo e Serbia”. L’Ue punterà dunque a far leva sul “futuro europeo” della regione e, soprattutto, sulla richiesta che, nel 2012, la Serbia ha presentato per divenire membro a tutti gli effetti dell’Unione (l’adesione è vincolata alla normalizzazione dei rapporti con il Kosovo).
Ma a gelare Bruxelles è intervenuta oggi la premier serba Ana Brnabic : “Non ho niente di buono da dire sul comportamento dell’Ue; ha tollerato il fatto che l’accordo di Bruxelles non sia stato attuato per anni e tace quando viene chiaramente violato”. Di più: “E poi mi chiede in una riunione a New York (a margine dell’Assemblea generale dell’Onu, ndr) cosa si potrebbe fare per allentare la situazione”.
In Kosovo, tra l’altro, l’Ue schiera dal 2008 la missione “EuLex”, il maggiore impegno civile nell’ambito della politica di sicurezza e difesa comune, con compiti di monitoraggio (prevalentemente sul sistema giuridico kosovaro) e assistenza alle forze di polizia. Maggiore è l’impegno Nato con la missione Kfor, attiva sin dal 1999, unica “forza armata” autorizzata a operare entro i confini kosovari. Oggi conta circa 3.500 unità ed è al comando del generale Franco Federici. L’Italia (dopo gli Usa) è il secondo Paese contributore con oltre 630 militari (un centinaio in più rispetto al 2020).
È proprio la missione Kfor ad avere annunciato oggi di aver “aumentato il numero e la durata dei pattugliamenti di routine in Kosovo, anche al nord”. L’operazione resta “concentrata sull’attuazione quotidiana del suo mandato, che deriva dalla risoluzione 1244 del 1999 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per garantire la sicurezza e la libertà di movimento per tutte le comunità che vivono in Kosovo”. Secondo i media serbi l’intervento sarebbe il frutto di alcuni colloqui tra i sindaci dell’area (abitata a maggioranza da serbi-kosovari) e il generale Federici.