Si è conclusa, con un breve comunicato del Ministero dell’Ecologia di Pechino, la tre giorni dell’inviato per il clima americano John Kerry in Cina.
Malgrado crescenti tensioni geopolitiche e le oggettive difficoltà delle due economie ad accelerare il ritmo della transizione, USA e Cina confermano di concentrarsi sull’attuazione della dichiarazione congiunta per la crisi climatica dello scorso aprile. Di fronte a una minaccia esistenziale e globale non c’è alternativa alla collaborazione.
Ne è profondamente convinto John Kerry, come mostrano recenti dichiarazioni. Serve “una mentalità da tempo di guerra” per il clima (28 giugno); “se non collaboriamo (con la Cina) moriremo” (29 giugno). “C’è poco tempo”, la crisi è “più violenta e più veloce” del previsto. “Siamo è una guerra, bisogna fare il necessario. Anche allearsi con i sovietici” (20 luglio).
Riunite a Tianjin, le delegazioni USA e cinese hanno discusso in modo “schietto, approfondito e pragmatico”, presentando le rispettive politiche nazionali e anticipando misure per rafforzare e “istituzionalizzare” dialogo e cooperazione.
Sul piano degli impegni la posizione cinese, come quella Ue, è più dettagliata. Biden ha promesso che gli Stati Uniti taglieranno le emissioni del 50%-52% entro il 2030, decarbonizzando il sistema elettrico per il 2035. Ma non è ancora definito come questi obiettivi saranno realizzati.
La decisione dipende dal Congresso. Questo indebolisce la posizione degli Usa, che però rivendicano un ruolo di guida nella politica climatica mondiale.
Agli inviti a fare di più la Cina risponde con un dettagliato piano operativo; il “1+N Framework” annunciato dal negoziatore Xie Zhenhua.
USA e Cina cercano una posizione comune per COP26 e sperano di replicare il modello di già sperimentato da Kerry e Xie, che contribuì al successo di Parigi. Si punta sul “Working Group Usa-Cina sul Cambiamento Climatico”, costituito nel 2013 e rimasto in funzione anche con Trump.
Proprio Tianjin ospita uno dei progetti di punta della cooperazione ambientale Usa-Cina. La Phl-TEDA EcoPartnership, della città di Filadelfia con il parco eco-industriale di Tianjin.
Rispetto al 2015 il serrato confronto Usa-Cina ha peggiorato il contesto. A Washington molti temono che la transizione energetica indebolisca gli Usa a vantaggio di Pechino.
Inquietano numeri e capacità di innovazione dell’industria cinese. La capacità rinnovabile installata nel 2020 in Cina è il 33% del totale mondiale. Lungi dall’essere una minaccia, il rapido sviluppo delle rinnovabili cinesi ha contribuito ad abbattere i costi a vantaggio di tutti. L’elettricità prodotta dal solare è oggi la più economica nella storia (fonte: Irena). I prezzi dei moduli solari fotovoltaici sono scesi dell’89% dal 2010. “I vantaggi della transizione non sono mai stati più chiari” (Francesco La Camera).
La transizione porta un aumento dei prezzi energetici sul breve periodo, questi scendono nel tempo.
Come ha notato Kerry, c’è una contraddizione nel chiedere a Pechino di fare di più sul clima mentre si sanzionano i produttori cinesi di pannelli fotovoltaici.
La Ue punta a un ruolo di leadership e vede in Pechino un partner necessario. I due blocchi stanno convergendo sul piano delle regole ambientali e degli standard industriali.
La transizione ecologica è entrata nella sua fase più dura. Dopo trent’anni di aggiustamenti incrementali e di ritardi, gli obiettivi di neutralità climatica comportano una netta deviazione dalle politiche del passato.
Nella vecchia concessione italiana di Tianjin il vecchio mondo sta morendo, mentre il nuovo fatica a comparire.
*L’articolo originale è stato pubblicato il 9 settembre 2021 su La Ragione