La liberazione del figlio di Gheddafi è conseguenza di un accordo politico già scritto, parte del percorso di riconciliazione e stabilizzazione in corso. L’analisi di Daniele Ruvinetti
Nel momento in cui il Forum di dialogo politico libico ha deciso la nomina del primo ministro libico e del Consiglio presidenziale, c’era già un accordo per accontentare i gheddafiani — una contropartita per farli essere parte dell’intesa. Il deal era semplice: Saadi Gheddafi, figlio dell’ex leader libico Muammar Gheddafi, detenuto in una prigione a Tripoli dal 2014, doveva essere scarcerato.
Abdelhamid Dabaiba, attuale premier della Libia ad interim, non poteva che rendere esecutiva la decisione presa. Alla AFP, una fonte dell’ufficio del procuratore generale ha affermato che il figlio di Gheddafi era stato rilasciato su “raccomandazione della procura”. Era detenuto in isolamento senza la possibilità di vedere nessuno, nemmeno il suo avvocato; nel 2015 erano circolate immagini in cui veniva vessato. Era stato estradato dal Niger il 6 marzo 2014, arrestato con l’accusa di aver partecipato alle repressioni contro le forze rivoluzionarie nel 2011.
Con lui sono stati rilasciati anche alcuni collaboratori dell’ex rais. La dinamica non è dunque sorprendente. Tutto nasce da un accordo che ha portato nell’ufficio del ministro della Giustizia Halima Abdul-Rahman, una gheddafiana nominata appositamente per fare da garante a certe azioni. La rassicurazione data da questo gruppo di potere al voto non tanto del primo ministro, quanto del presidente Mohamed al-Manfi, ha portato i suoi frutti. Gli uomini di Gheddafi, che ancora sono una realtà trasversale in Libia, hanno ottenuto di realizzare un loro interesse in cambio di un sostegno all’attuale governo — nominato tramite un processo dell’Onu con il compito di portare il Paese alle elezioni il 24 dicembre.
D’altronde la pena era in scadenza, e l’accordo è servito loro per essere integrati nel gioco politico che la stabilizzazione in corso si sta portando dietro. Saadi, appena liberato, è stato portato in Turchia, accompagnato personalmente dal viceministro alla Giustizia. L’aspetto più interessante è che la mossa è stata condivisa dal presidente Manfi — esponente politico di Tobruk, in Cirenaica — con i circoli del potere di Misurata. Un’operazione attivata nell’ottica generale di riconciliazione intra-libica, dunque. Uno sforzo nella direzione del fare pace col passato, in cui l’appoggio dei misuratini alla liberazione del figlio di Gheddafi ha un valore ulteriore. Segno di un dialogo ancora attivo che dà speranze per il futuro.