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Alla Nato serve la leadership italiana. Scrive Sanfelice di Monteforte

La crisi in Afghanistan mostra che anche la Nato è chiamata a una riflessione interna. L’Italia deve essere in prima fila, sia per la propensione ad attenuare tensioni e risolvere i conflitti, sia per l’apprezzato ruolo dei militari in zone di conflitto. Intanto, la corsa al prossimo segretario generale si è aperta. Gli scenari dell’ammiraglio, esperto militare, docente di Studi strategici

Come diceva un vecchio saggio, “la sconfitta grida ad alta voce perché pretende spiegazioni; mentre il successo, come la carità, copre un gran numero di peccati” (A. T. Mahan, Strategia Navale). Il ritiro dall’Afghanistan della Nato, seguito da quello americano, non ha fatto eccezione. Tutti hanno criticato l’unilateralismo degli Stati Uniti, che avrebbe dovuto essere un ricordo del passato. Alcuni, poi, hanno anche avanzato il sospetto che il governo di Washington abbia firmato a Doha un “patto col diavolo” – appunto, i talebani – sulle loro teste.

L’abbandono, da parte degli inglesi e degli americani, di un teatro di operazioni, quando la situazione era diventata ingestibile, è però un approccio seguito più volte, per salvare almeno parte delle loro forze e riprendere in seguito l’iniziativa. Basti ricordare la ritirata inglese di Dunkerque, nel 1940, e quella americana dal Vietnam nel 1972. Chiunque si associ con loro deve, quindi, tener conto di questa eventualità.

In Afghanistan, la Nato aveva un ruolo sussidiario, rispetto alle forze della coalizione, sotto il comando degli Usa. La missione era, appunto, chiamata “International security assistance force” (Isaf), un “assistente alla sicurezza”, non protagonista, sia della coalizione, sia di quelle Nazioni che cercavano di sviluppare l’economia delle province loro assegnate. Che le cose andassero male, e che la Nato sapesse che la situazione stesse degenerando, lo si era visto già nel 2010. Infatti, il Concetto strategico di quell’anno riporta una frase rivelatrice di questo disagio: “le crisi e i conflitti al di là dei confini della Nato possono costituire una minaccia diretta per la sicurezza del territorio e la popolazione dell’Alleanza. La Nato , quindi, si impegnerà, laddove possibile e quando necessario, per prevenire crisi, gestirle, stabilizzare situazioni post-conflittuali e sostenere la ricostruzione” .

Premesso che il ritiro delle forze alleate è stato tempestivo e ordinato, anche la Nato si deve considerare sconfitta in Afghanistan, oltre agli Stati Uniti. Eppure, nel biasimo generale, pochi hanno puntato il dito sull’Alleanza. Più preoccupante, però, è la mancanza di realismo che traspare da un recente documento, scritto da esperti, in previsione del nuovo Concetto strategico, nel quale, anzitutto, si sorvola sugli errori commessi in Afghanistan. Non è, infatti, con la tecnologia degli armamenti che si stabilizza un Paese, bensì fornendo alla maggioranza dei suoi abitanti una migliore qualità di vita. Gli afghani hanno, alla fine, preferito far entrare i talebani a Kabul, piuttosto che scegliere altre vie, e questo è uno smacco per tutte le organizzazioni che hanno operato in quella Nazione.

Nel documento, poi, si sostiene che uno tra i principali ruoli della Nato è di “contrastare la minaccia militare russa” . Negli ultimi anni la dirigenza dell’Alleanza si è concentrata nel contenere l’Orso russo, un doveroso atto di attenzione verso quei Paesi membri, confinanti con la Federazione, che temono di perdere la propria indipendenza, o essere pesantemente condizionati dal Cremlino. Si tratterebbe di un approccio giusto, se non fosse che, mentre la Nato si sforza di contenere la minaccia russa, il Presidente Usa concorda con il suo omologo di Mosca come gestire i problemi del mondo. A questo punto, sorge il sospetto che la Nato abbia il ruolo del “cane da guardia” che abbaia in giardino, mentre gli Usa, nel salotto buono, dialogano con quello che – ufficialmente – la Nato considera un nemico.

Ma lo scarso realismo si nota pure nel seguito del documento dell’Alleanza, dove si fa seguire come minaccia, dopo la Russia, addirittura la Cina, come se la Nato fosse in grado di svolgere un ruolo credibile in quella parte del mondo. Pensate, tra le altre, alle dispute sul Mar cinese meridionale, quella tra le due Coree e quella su Taiwan, e provate a ipotizzare cosa potrebbe fare la Nato per fronteggiare tali situazioni, se giungessero al calor rosso. Stando al documento, infatti, la Nato dovrebbe gestire “la sfida geopolitica e ideologica simultanea [che proviene] dalla Russia e dalla Cina, [che] preannunzia conseguenze per la sicurezza e la prosperità di noi tutti” e diventare, addirittura, una “fonte di stabilità per un mondo instabile” , su scala globale, un’evidente “missione impossibile”.

Bisogna, quindi, fare una pulizia radicale, rigenerando la Nato dall’interno, come fece l’Onu nel 2000 dopo le sconfitte e il conseguente studio di riforma, il “Rapporto Brahimi”. Da allora, le Nazioni Unite non hanno mai più compiuto il passo più lungo della gamba, e hanno mantenuto un profilo adeguato alle situazioni, anche se alcuni problemi strutturali rimangono. Anche la Nato dovrà intraprendere una simile strada, seguendo due criteri di base. Il primo è quello di dare rilievo alla partecipazione, in termini di fondi, militari e mezzi, alle operazioni alleate, piuttosto che guardare solo la percentuale del Prodotto interno lordo devoluta alle spese per gli armamenti. Come diceva uno studioso del passato, “quando si interviene con un contingente mediocre, per effetto di trattati stipulati, non si è altro che un accessorio, e le operazioni sono dirette dalla potenza principale” (A. H. Jomini, Précis de l’Art de la Guerre). La partecipazione, quindi, fa premio sul denaro speso per la Difesa.

Il secondo criterio è quello della capacità di affrontare le crisi più impellenti, e in particolare quelle che provengono dal “sud del mondo”, terrorismo incluso. LA Nato non può ignorare il confronto, sempre più accanito, tra i Paesi sviluppati del nord e quelli del sud del pianeta, che guardano a noi con invidia, mista a rabbia, sentendosi sfruttati. Notava, anni fa, Paul Kennedy che “esiste uno scollamento fra le aree del mondo dove si trovano le ricchezze, la tecnologia, condizioni di buona salute, ed altri benefici, e dove vivono le generazioni che aumentano velocemente [in numero, ma] posseggono poco o nulla di questi benefici. Un’esplosione della popolazione in una parte del globo e un’esplosione della tecnologia nell’altro non è una buona ricetta per un ordine internazionale stabile” .

Proprio questa è la situazione che incide sulla nostra sicurezza e il nostro benessere, e che li minaccia direttamente, più di quanto potrebbero fare la Russia e la Cina. I rapporti Nord-Sud, però, vanno gestiti con finezza, politicamente e militarmente, da leader in grado di dialogare con la controparte, i cui motivi di malcontento nei nostri confronti non sono totalmente ingiustificati. Questi criteri ci portano a capire perché il nuovo leader della Nato dovrà venire dalla sua componente meridionale, Italia in testa, l’unica in grado di trattare le Nazioni del Sud del mondo con rispetto e fermezza, non chiudendosi a riccio.

Né l’Unione Europea, né tantomeno la Nato, infine, sono dotate delle capacità e della coesione per poter partecipare al “gioco pericoloso” del concerto delle potenze, su scala globale. Esse devono riprendere quella saggia gradualità che, nel 2003, aveva portato l’Ue a iniziare dal vicinato, per allargare l’area di stabilità e di sviluppo. In questo, l’Italia è particolarmente esperta, e la sua politica estera di mediazione e di pacificazione è ben nota a tutti, fin da tempi non sospetti.

Già durante la Guerra fredda la nostra diplomazia si adoperò per mettere in contatto le parti, durante la guerra del Vietnam, e iniziò a creare una situazione di interdipendenza – il migliore modo per attenuare le tensioni – con l’Unione Sovietica. Ancora, le trattative per trovare una soluzione alla guerra civile nell’ex Jugoslavia devono molto alla nostra azione pacificatrice. In campo Nato, poi, abbiamo fornito i contingenti in proporzione più numerosi e ci siamo adoperati, per decenni, nell’attenuare le tensioni e nel risolvere conflitti. Persino in Afghanistan la nostra opera di pace è stata apprezzata da tutti, amici e nemici, una conferma dei legami che esistono tra l’Italia e quella Nazione fin dagli anni 1930.

Senza una leadership italiana, quindi, la Nato rischia di continuare a concepire missioni al di sopra delle proprie forze, trascurando i problemi reali, e accumulando insuccessi a catena, per colpa della mancanza di realismo di coloro che l’hanno retta finora. Il risultato potrebbe essere simile a quanto accaduto all’Unione dell’Europa occidentale, sprofondata nell’irrilevanza, a causa dell’inerzia e degli insuccessi accumulati nel tempo.

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