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Perché l’Afghanistan dipende dall’oppio (e cosa significa per il mondo)

La coltivazione e l’esportazione di oppio è un’“industria” strutturale per la società afghana. Conquistata Kabul, i talebani hanno dichiarato la fine delle coltivazioni da oppio. Ma, come ammettono loro stessi, senza fondi internazionali non c’è modo di eradicare i papaveri (e ridurre il traffico dell’eroina)

“L’Afghanistan non sarà più un Paese di coltivazione dell’oppio”, ha dichiarato il portavoce dei talebani Zabibullah Mujahid a due giorni dalla presa di Kabul, promettendo di superare la dipendenza del Paese dal traffico illegale di droga. E aggiungendo una postilla cruciale: “La comunità internazionale deve aiutarci”. Perché i nuovi padroni dell’Afghanistan sono pienamente consapevoli di avere davanti un problema infinitamente complesso, da cui può dipendere il loro futuro come governanti.

Gli integralisti islamici sono memori del 2001, l’ultimo anno del loro dominio sul Paese e il primo del ventennio sotto il controllo occidentale. Fu allora che il mullah Omar, d’accordo con le Nazioni Unite, bandì la coltivazione del papavero da oppio, ingrediente fondamentale per i farmaci oppiacei (tra tutti, la morfina) come anche l’eroina, il cui mercato è oggi come allora dipendente dall’export afghano (fonte di oltre il 90% dell’eroina in circolazione a livello globale nel 2020).

Diversi analisti – tra cui il giornalista pluripremiato Nico Piro, profondo conoscitore dell’Afghanistan e autore di due libri in materia – concordano nel dire che il divieto del 2001 costò ai talebani una rivolta e la perdita del supporto della popolazione, uno dei motivi della loro disfatta politico-militare. E però anche gli occidentali, intenzionati a limitare il flusso di eroina verso i propri Paesi, hanno fallito miseramente e ottenuto l’effetto opposto.

Stime della produzione di oppio (in tonnellate) dal 1994 al 2020 (fonte: Unodc)

Come indicano i dati dell’Unodc (Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine), la produzione di oppio non fece che aumentare dal 2001, nonostante i ripetuti tentativi occidentali di avversarla. Nel 2017, l’anno record, gli ettari coltivati a papaveri da oppio erano quadruplicati rispetto ai tempi della dominazione talebana. Nel 2020 i coltivatori afghani hanno prodotto 6000 tonnellate di oppio, secondo l’Unodc.

Stime della produzione di oppio (in ettari coltivati) dal 1994 al 2020 (fonte: Unodc)

Semplicemente, la coltivazione del fiore è una trave portante del sistema-Paese, dove il 90 percento dei cittadini vive sotto la soglia della povertà e dove le rigide condizioni climatiche mal si prestano a una più ampia varietà di piantagioni. I papaveri da oppio sono robusti e richiedono poca acqua, la produzione è relativamente sicura, il prodotto si conserva e si trasporta molto facilmente. E sui loro derivati si appoggiano le esistenze di centinaia di migliaia di famiglie afghane.

Come spiega Piro, il sistema economico alla base del traffico di oppio è spesso l’unico in grado di sostenere i contadini delle zone rurali, anche se può intrappolarli in una spirale di debito che li costringe a continuarne la produzione. “Nell’Helmand e nel sud in genere esistono dei contratti agrari tradizionali che prevedono il pagamento alla semina da parte dei contadini, per cui il rischio di non vendita del raccolto è zero”, racconta il giornalista.

Infine, l’“industria” della coltivazione del papavero da oppio (e quella della raffinazione dell’eroina, sviluppatasi solo in tempi recenti) è una delle poche realtà economiche del Paese in grado di produrre valore, seppure la maggior parte di esso nasca dal mercato nero internazionale. Nemmeno i vent’anni di occupazione occidentale (in cui lo Stato si reggeva in piedi solo grazie agli aiuti esterni) hanno portato alla nascita di nuove capacità produttive. Al punto che, ora che si sono chiusi i rubinetti internazionali, l’economia è a un passo dal fallimento – e i talebani avranno bisogno di ogni centesimo.

Perciò, indipendentemente dall’opposizione religiosa, i nuovi governanti di Kabul sanno bene che non possono attaccare una realtà così radicata ed essenziale per il sostentamento di intere aree del Paese (nonché foriera di una grossa fetta di Pil). Stando agli analisti della BBC e del think tank ODI essi non beneficiano direttamente dal commercio dell’oppio, ma traggono sostentamento dalle tasse e dai dazi, che vengono imposte anche ai diversi stadi di produzione dell’eroina, dalla coltivazione al trasporto, dalla raffinazione al traffico internazionale.

L’instabilità politica in Afghanistan non può che favorire il mercato nero dell’oppio, che secondo le stime Unodc per il 2021 gode di ottima salute. Stando a diversi enti internazionali sono in aumento anche le esportazioni di efedrina, una pianta da cui si ricava un ingrediente utile per la metanfetamina, e cannabis, entrambi prodotti con nuove “industrie” alle spalle e immensi mercati all’estero (si pensi alla crisi di oppiacei negli Usa).

In un clima del genere (e data la solidità del sistema) pensare di riconvertire le piantagioni di oppio, come hanno provato a fare gli occidentali a loro tempo, è poco più di una vana speranza. Serve uno Stato più forte delle realtà locali, con piani e finanziamenti, di cui al momento non c’è traccia. Lo stesso vale, come ricorda Piro, per il controllo statale dell’industria al fine di produrre ed esportare oppio legale (come quello a fini medici).

L’Occidente, dunque, è messo davanti al solito dilemma: per provare a impattare il mercato nero afghano ed evitare di ridurre parte del popolo alla fame deve trattare con, ed eventualmente finanziare, i talebani, senza riconoscere al contempo il loro Emirato islamico dell’Afghanistan. Non è ancora chiaro che forma potrebbe prendere un dialogo del genere, ma non si sa nemmeno a quali organizzazioni internazionali, tra Onu e ong, sarà concesso di rimanere sul territorio (o ricevere soldi dall’estero, cosa quasi impossibile al momento).

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