Coloro che si annidano nelle redazioni, nelle case editrici, nei circoli culturali e disseminano una tendenza anti-americana e anti-occidentale possono fare danni maggiori di quelli che venivano definiti utili idioti ai tempi della Guerra fredda. Specialmente in una fase come l’attuale in cui c’è bisogno di una stretta coesione per progettare e realizzare il “dopo Kabul”
Sono in corso varie iniziative per ricordare l’11 settembre 2001, l’attacco alle Torri Gemelle della New York Port Authority, che causò 3000 vittime e segnò il vertice degli attentati terroristici. Una tragedia che si sarebbe forse potuta evitare se dopo due gravi attentati in Africa, il presidente americano, Jimmy Carter, avesse autorizzato la Cia a eliminare Bin Laden e il suo vertice, di cui gli 007 americani conoscevano esattamente la localizzazione. Tuttavia, i legami tra l’amministrazione Usa e Bin Laden pare fossero di lungo periodo: Operazione Cyclone era il nome in codice del programma di armamento dei mujahideen afgani (con sussidi americani) durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan. L’operazione è durata dal 1979 al 1989 e fu una tra le più lunghe e costose operazioni che la Cia abbia mai compiuto, con un fondo iniziale di $20–30 milioni di dollari all’anno nel 1980 fino ai $630 milioni all’anno nel 1987. In quei dieci anni si strinsero rapporti che in vario modo durarono sino all’11 settembre 2001.
Tutto ciò appartiene allo storia e saranno gli storici del futuro ad appurare l’evoluzione dei fatti, quando tra trent’anni verranno aperti gli archivi diplomatici di quel periodo. Ci vorrà ancora di più per poter leggere, semmai, gli archivi della Cia e degli altri servizi segreti. Tuttavia, occorre tenerli presente in questi giorni che, dopo vent’anni dall’attentato dell’11 settembre 2001 si chiude l’intervento militare sotto l’ombrello della Nato in Afghanistan, intervento originato dal progetto di porre fine al terrorismo o almeno alle sue cellule più pericolose.
Il supporto ai mujahideen afgani nel decennio 1979-1989 dovrebbe indurci a riflettere su quelli che chiamerei i talebani metropolitani. I talebani metropolitani sono coloro che si annidano nelle nostre città e, tutto sommato, non sono insoddisfatti della piega che hanno preso gli avvenimenti in Afghanistan in quanto la leggono come “una sconfitta americana” non dell’Occidente. Hanno un forte spirito anti-americano che, come ha sottolineato Sabino Cassese, più che contro gli Stati Uniti è contro i valori di libertà, di pluralismo, di concorrenza, di limiti all’intervento pubblico che gli Usa per loro incarnano. Sono più numerosi di quel che si pensa e possono assumere atteggiamenti del tutto irrazionali.
Ad esempio, un mio lontano affine francese, tornando nel 2005 (ossia meno di quattro anni dall’attentato alle torri gemelle) dal viaggio di nozze a Lahore, proclamava che da lì si vedeva come gli Stati Uniti erano in piena decadenza e il futuro del mondo era nella mani illuminate dei pashtun. Una forma estrema: suo fratello si è convertito all’Islam dopo l’11 settembre, vive in moschea tra Francia e Senegal e fa proselitismo. Talebani metropolitani che arrivano a questi eccessi sono poco pericolosi perché cadono nel ridicolo (a meno che non sposino il terrorismo).
Molto più insidiosi coloro che si annidano nelle redazioni, nelle case editrici, nei circoli culturali e disseminano una tendenza anti-americana ed anti-occidentale. Possono fare danni maggiori di quelli dei così detti utili idioti ai tempi della Guerra fredda. Specialmente in una fase come l’attuale in cui c’è bisogno di una stretta coesione per progettare e realizzare il “dopo Kabul”.