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Dopo la sentenza sulla trattativa, non bastano inchieste o referendum

Di Alessandro Corbino

La decisione della Corte d’Appello sia occasione per una riflessione “alta” sulla giustizia, della quale può essere sede propria solo un organismo “costituente” e alla quale dia sostegno una dottrina politologica e giuridica che interagisca con l’organismo in questione. L’intervento di Alessandro Corbino, già professore ordinario di Diritto romano all’Università di Catania

Non so se la decisione della Corte di Appello di Palermo sulla cosiddetta Trattativa Stato-mafia abbia messo davvero fine ad una vicenda processuale tra le più complesse di questo nostro tormentato ultimo trentennio. Sono ancora possibili ulteriori sviluppi in Cassazione.

Non ho naturalmente elementi (come credo quasi tutti noi) che consentano di esprimere un’opinione di merito che abbia una qualche seria giustificazione. Non sarebbe stato possibile, del resto, anche nel caso di una decisione di segno opposto. Lo osservo non perché penso che le sentenze non si espongano al giudizio anche dell’opinione pubblica. Ma perché penso che non lo si possa con la disinvoltura con la quale è divenuto costume farlo. Anche quel giudizio richiede informazione puntuale e competenze. Approfondita conoscenza dei fatti e capacità di leggerli con le lenti appropriate. Due cose che devono concorrere perché l’opinione di osservatori liberi (pubblica per questo, non per il numero di coloro che la esprimono) possa avere significato. Nella circostanza, pochissimi hanno l’informazione e troppi ritengono di avere la competenza per valutare. Accade dunque quel che sta accadendo. I commenti si dividono seguendo il medesimo schema che si osservava dopo la prima decisione. Con la differenza che avviene a parti invertite.

La giustizia penale italiana ha perso purtroppo di credibilità. Non gode la fiducia di coloro che ne subiscono l’azione. Le sue decisioni ricevono ormai (possiamo generalizzare senza temere di tradire troppo la realtà delle cose) il consenso di coloro soltanto che speravano nelle stesse. L’esatto contrario di ciò che dovrebbe accadere. Sarebbe fisiologico avere decisioni che “convincessero” il soccombente. Che lo costringessero a comprendere che quella che lo riguarda non avrebbe potuto essere che quella adottata dal giudice.

Non sarà facile cambiare questo stato di cose. Ma è la strada obbligata del ritorno ad una “civiltà del diritto”. Occorre restituire prestigio e credibilità all’azione giudiziaria. Non se ne può lasciare proliferare oltre la percezione di “sopraffazione” che avvertono molti di coloro che vi sono esposti. Non tanto per i giudizi che essi subiscono (che comunque non si sottraggono anch’essi talora a quella percezione: emblematico quanto è stato rivelato – senza ricevere smentita alcuna – sul caso Berlusconi), quanto per i patimenti ai quali li costringe il percorso processuale che li porta a quell’esito, persino quando favorevole.

Per restare al nostro caso, qualcuno (di coloro che conducono le cose) considera il rilievo che anni di pressione giudiziaria hanno sulla vita di una persona? Chi potrà mai restituire ad un “assolto” i “decenni” (di questo si parla) di vita serena ed operosa che egli avrebbe trascorso senza l’imputazione? E chi considera quale peso “relativo” ha un ventennio/trentennio nella vita di un individuo già adulto? Non è vero che l’assoluzione che alla fine libera è – come molti affermano (anche per il caso ultimo) – la riprova che il sistema funziona. Sarebbe certo irreparabile subire condanna se innocenti. Ma essere assolti dopo “decenni” di processo è una stortura del sistema. Non è affatto la prova del suo funzionamento!

Nessuno di noi può avere ricette facili. Ed è del tutto illusorio pensare che i miglioramenti che si sono indubbiamente apportati con le riforme appena approvate costituiscano una soluzione.

La questione giustizia è la più grave delle questioni che una “forma di governo” (quale che si voglia) deve risolvere. Da che mondo è mondo, “governo” significa assicurare una vita ordinata (sicura in tutte le direzioni) ad una collettività. Della quale il primo strumento è, proprio per questo, l’amministrazione della giustizia. Le forme di governo (che non possono non comprenderla) possono bene essere (e sono infatti) molteplici (e molteplici perciò le modalità di rendere giustizia). Ma ciascuna di queste (molto complesse) forme esige un’architettura coerente e sostenibile. Capace di conservare i propri equilibri (che ne rendono “accettata” l’azione) nell’insuperabile mutamento storico dei contesti. È un’architettura fatta di obiettivi temporali, di competenze che ne rendono possibile il conseguimento, di garanzie che permettono al giudicato di conservare fiducia nel giudice. Dà espressione ad una “costruzione” di regole che solo se estremamente raffinata permette di assolvere con successo (di tempi e di risultati) la funzione alla quale essa è preordinata.

C’è una sola via – a mio modestissimo modo di vedere – di rimettere in piedi il nostro sistema giustizia. Passa per una riflessione molto approfondita, alimentata da una considerazione della storia comparata delle forme di governo, può permettere di conseguire risultati efficaci. Dubito molto che interventi amputativi (come quelli referendari) o ricognitivi (come le inchieste parlamentari invocate) possano essere sufficienti.

Potranno aiutare. I referendum a stimolare le riforme. Le inchieste parlamentari a dare evidenza alle ragioni delle distorsioni maturate e a studiare gli strumenti di prevenirne nuove. Ma ciò che è necessario è una riflessione “alta”, della quale può essere sede propria solo un organismo “costituente” (specificamente deputato) e alla quale dia inoltre sostegno una dottrina politologica e giuridica (nel senso più ampio, comprensivo cioè di competenze storiche e comparatistiche) che interagisca opportunamente con l’organismo in questione. Quel che è indispensabile insomma non sono sparsi interventi, ma una esplicita revisione della “intera” forma di governo, che ne consideri e ricomponga i complessivi equilibri in un nuovo e sostenibile disegno.

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