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Vista a sud. I “Twenty” anni a stelle e strisce di Semprini

Di Francesco Semprini

Una privilegiata vista verso sud di un balcone di New York e il pensiero che corre verso la situazione in Afghanistan. Pubblichiamo un estratto dell’ultimo capitolo del volume di Francesco Semprini Twenty. Il nuovo secolo americano: venti anni di guerra e pace nelle cronache di un giornalista italiano, (Signs Books), con la prefazione di Federico Rampini, illustrazioni di Stefano Mazzotti e contenuti multimediali fruibili con smartphone o tablet tramite QR Code e anche disponibile in formato audiolibro

Per chi abita a Manhattan avere la vista a sud è considerato un privilegio. Non solo perché la visuale a scendere dell’isola è uno scatto suggestivo, ma perché il gioco di riflessi del sole rende la luminosità degli ambienti particolarmente intensa, e i colori del tramonto acquistano vigore e pastosità. Ho iniziato a crederci con convinzione da quando, per la prima volta in questi “Twenty” a stelle e strisce, abito in una casa con vista a sud. E con un balcone dove mi posiziono a scrivere qualche pagina inebriato dalla vista (e dai suoni) della Seconda Avenue, che si allunga a perdita d’occhio insinuandosi tra i grattacieli di Downtown. Su cui svetta la nuova Freedom Tower, non affascinante come le Torri Gemelle, ma senza dubbio maestosa e prepotente. Ed è lì che puntualmente si poggia lo sguardo, lì dove tutto è iniziato, come un cerchio che si chiude.

Anche ora che sto scrivendo queste ultime righe di “Twenty”, il mio sguardo non può fare a meno di volgere a sud e perdersi nella giungla di vetro e cemento da cui spunta l’antennone della libertà, ripensando a quel mite e soleggiato martedì di venti anni fa. E di tutto quello che è accaduto nel mezzo. In questo senso sì, la vista a sud è un privilegio perché mi permette di tuffarmi nel passato, di elaborarlo e metabolizzarlo, mentre seduto sul presente immagino il futuro.

La vista a sud è anche una metafora della mia vita. Se leggiamo il mondo attraverso la ripartizione tra nord e sud, ovvero tra emisfero del progresso e del benessere ed emisfero dell’affanno e delle sofferenze, posso dire di aver scelto di vivere in una delle zone più a nord del pianeta, New York e gli Usa, per poi affacciarmi e immergermi continuamente nelle zone più a sud della nostra terra, toccando tutti i continenti. È lì che prima di tutto va il mio pensiero, in queste ultime riflessioni, con una sovrapposizione di interrogativi che rimangono al momento orfani di risposta, ma che quanto meno aiutano a tracciare una prima mappatura dei prossimi “Twenty”. Cosa accadrà all’affascinante e martoriato Medio Oriente? Quale ruolo gli Stati Uniti d’America avranno in quello scacchiere complesso e infuocato? E più a sud (in senso figurato) nel Risiko della memoria, mi soffermo sull’Afghanistan, dove ho mosso i primi passi da reporter di guerra.

Magari mentre questo volume trova posto sugli scaffali delle librerie, io sarò di nuovo lì, per osservare e raccontare uno dei momenti più drammatici degli ultimi “Twenty” afghani, lo scomposto ritiro delle truppe Nato e la nuova avanzata dei talebani con tutto quello che si trascina appresso. Non a caso, proprio mentre scrivo queste pagine conclusive, porto avanti una battaglia sulle colonne de La Stampa per aiutare a mettere in salvo il prima possibile gli interpreti che hanno lavorato al fianco del contingente italiano dinanzi al rischio che rimangano in trappola, vittime sacrificali della giustizia sommaria della Sharia. L’Italia è un grande Paese – ripeto come un mantra tra me e me – sono convinto che non tradirà la fiducia di chi l’ha aiutata e troverà la sua collocazione sul podio del rispetto internazionale.

In ogni caso la mia inquietudine rimane per il popolo afghano, per le donne e per i bambini che tante volte ho conosciuto, raccontato e fotografato, prime vittime di una storia complicata che non concede tregua e non conosce pace. Vittime tanto quanto i soldati di tutte le divise che hanno perso la vita in questa guerra senza fine. Perché americani e alleati se ne sono andati, ma il conflitto continua, così come succede da quarant’anni.

Profetiche sono state due interviste (inedite) realizzate nella mia ultima missione nel Paese asiatico del settembre 2019. La prima con Ahmad Massoud, classe 1989, figlio del “Leone del Panjshir”, che aveva 12 anni quando il padre fu ucciso per mano di due terroristi di Al Qaeda travestiti da giornalisti, alla vigilia degli attacchi dell’11 settembre 2001. Di quell’attentato all’America Ahmad Shah Massoud, carismatico leader dei mujaheddin dell’Alleanza del Nord, che ha combattuto contro sovietici e talebani, ne fu profeta e vittima, la prima in assoluto. Il suo testamento è oggi incarnato nel figlio, a partire dal volto identico al padre coronato dal pacol, il copricapo di lana tradizionale, e dal medesimo nome. Sulle sue spalle ha una importante e pesante eredità. Ha fondato un nuovo movimento ed è pronto a scendere in campo: “L’Afghanistan giorno dopo giorno è sempre più diviso. Terrorismo, estremismo, corruzione, divisioni etniche e religiose fomentate ad arte. Tutto questo va contro i valori e il sacrificio di mio padre. Adesso tocca a me portare avanti la sua eredità, la sua via. Lui voleva un Paese indipendente, forte e pacifico, all’interno e con il resto del mondo, dove non si combattono guerre per procura di altri Paesi. Mio padre ha sempre combattuto e protetto l’Afghanistan contro l’invasione di qualsiasi gruppo totalitario, a partire dai taleban. Se questi vorranno il dialogo siamo pronti a parlare, se proveranno a mettere le mani su Kabul usando la forza siamo altrettanto pronti a combattere per proteggere il Paese raccogliendo l’eredità di mio padre”.

La seconda intervista è stata sul fronte opposto, con Zabehullah Mujahed, portavoce ed esponente di spicco del movimento delle madrasse, il quale mi disse in merito al presidente Ashraf Ghani che non avrebbero parlato o negoziato con governi fantoccio, e che la condizione più importante era avere un vero governo islamico e l’applicazione della Sharia. “Negli ultimi 40 anni – mi disse – abbiamo sacrificato milioni di afghani per la legge islamica. Non accetteremo mai le idee e la democrazia occidentali”.

Croniche contrapposizioni che rafforzano la proiezione bellica nel domani dell’Afghanistan, o in alternativa la restaurazione dell’Emirato islamico retto sull’interpretazione più dura e spietata del Corano.

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