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Patrick Zaki, un banco di prova per dell’Italia. Scrive Giusti

Di Carlo Alberto Giusti

Perché come italiani e, poi, come Europei, non riusciamo a fare la voce “veramente grossa”? Cosa ci rende in fin dei conti deboli nel rivendicare il rispetto dei diritti? Ci sono molti motivi. Il commento di Carlo Alberto Giusti, Rettore Link Campus University Roma

Forse riflettiamo poco sul fatto che Patrick Zaki, lo studente egiziano incarcerato al Cairo in attesa di giudizio da ben 19 mesi, è un membro della nostra comunità universitaria, un giovane con la voglia di formarsi anche all’estero, un “masterizzando” brillante e curioso come tanti che sono nella mia Università e in altre Università italiane. Patrick è in questo momento accusato di quello che nella nostra Università incoraggiamo a perseguire: essere capaci di fare ricerca, attenersi ai fatti per descriverli, proporre giudizi ancorati ai risultati del lavoro.

L’INCREDIBILE NORMALITÀ DELLE COSE DETTE DA ZAKI

Da questo punto di vista, è impressionante la acuta, ordinata normalità delle cose scritte da Zaki nell’articolo del suo blog, che costituisce in questo momento, a detta del Tribunale del Cairo, il suo principale atto d’accusa, e per il quale rischia fino a 5 anni di carcere, senza possibilità di appello. Siamo di fronte ad un resoconto, basato su articoli pubblicati e dichiarazioni ufficiali, di alcuni episodi di cronaca recente che hanno riguardato per lo più comportamenti di discriminazione possibile contro membri della comunità copta egiziana. Uno di questi, quello di cui più si parla, è riferito a un militare egiziano ucciso in un attentato terrorista, considerato un “martire” dal governo egiziano, ma con un trattamento, in termini di riconoscimenti, che Patrick considera “difforme” rispetto ad altri proposti per militari musulmani. Patrick poi si chiede il perché di controversi comportamenti di alcune Corti egiziane che tendono a non considerare valide le testimonianze di appartenenti alla comunità copta, ma accettano soltanto quelle di cittadini musulmani… Lo scrivere è pacato, si fanno parlare i dati. Il tono è quello del ricercatore, non del polemista. Insomma un articolo che molti di noi avrebbero potuto scrivere; un’indagine informata; un materiale, delle considerazioni per un dialogo con le Istituzioni, basato anche sul fatto che Al-Sisi, il Generale a Capo dello Stato egiziano, si sia definito il primo difensore della popolazione copta egiziana (una minoranza, ma di circa 20 milioni di persone, forse è meglio ricordarlo…).

SIAMO DEBOLI, PERCHÉ?

Eppure sulla base di dati che costituirebbero al massimo l’occasione per una polemica tra parti politiche o settori religiosi, in ogni Stato di Diritto, in Egitto siamo di fronte ad una prolungata carcerazione preventiva del “presunto” colpevole, con uno scarso rispetto dei diritti di difesa. Assistiamo di fatto a un abuso. A una punizione senza processo. All’annichilimento della logica e delle “proporzioni”.
Stiamo firmando appelli, svolgendo manifestazioni, appoggiando iniziative di vari organismi umanitari. Il nostro Parlamento ha espresso con un voto la volontà di concedere la cittadinanza a Zaki, ma ancora non sembra che si stia venendo a capo di qualcosa, così come ancora la “verità” per Regeni rimane “oscura” dopo più di 5 anni. Perché?

Perché come italiani e, poi, come Europei, non riusciamo a fare la voce “veramente grossa”? Cosa ci rende in fin dei conti deboli nel rivendicare il rispetto dei diritti? Ci sono molti motivi, credo, sui quali riflettere e, magari avanzare proposte e ipotesi di soluzione. Si tende generalmente a tener conto delle relazioni commerciali con l’Egitto, che ci vedono secondi solo alla Germania nelle esportazioni, degli aspetti energetici, se è vero che il 20% della produzione energetica dell’Eni è legata all’Egitto, e di quelli geo-strategici mediterranei. Nessun aspetto va trascurato, ma non esiste alcun ipotetico vantaggio economico o diplomatico in nome del quale poter accettare eventuali violazioni dei diritti umani.

Che fare, allora, che orientamenti assumere? Le soluzioni drastiche, lo scontro acuto potrebbe essere controproducente. Le sanzioni (previste nel trattato Onu al Cap. 6), sono possibili, ma dobbiamo giungere a un’intesa molto allargata per renderle plausibili, e vanno modulate per non colpire solo la popolazione. Quello che credo essenziale è, però, che tutti ci si convinca che il non rispetto dei diritti non calpesta solo la nostra dignità, ma anche la nostra credibilità e, a medio termine, la nostra ricchezza.
Regeni e Zaki, semplicemente, non possono essere dimenticati.


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