Era un fanfaniano tra i più ortodossi, ma che a differenza del suo leader amava navigare lungo rotte più prudenti e circospette. Non gli farò il torto di dire che eravamo d’accordo. Avevamo visioni diverse e caratteri diversi. La testimonianza di Marco Follini
Ricordo con amicizia e con dolore Alberto Brandani, scomparso dopo un lungo, sofferto, impavido e discretissimo combattimento contro la malattia. Egli era un democristiano toscano, e già la cosa sembrava destinarlo a una certa difficoltà. Ed era un figlio della prima Repubblica, di quelli che riconoscevano con una certa fatica e un’intima sofferenza l’avvento della “Seconda”. Ma per quanto l’onda del tempo si infrangesse così spesso sulla barriera dei suoi convincimenti egli non rinunciava mai a vivere fino in fondo le stagioni che la vita (e la politica) gli riservavano.
Ai tempi dell’Udc lo designai per il consiglio di amministrazione dell’Anas. Il suggerimento mi venne da Cesa, e sulle prime lo accolsi con un briciolo di diffidenza. Sbagliando, perché poi Alberto svolse quel ruolo con scrupolo professionale e insieme lealtà politica. Come del resto aveva fatto molti anni prima, al Monte dei Paschi di Siena. Sul fatto che fossero i partiti, all’epoca, a effettuare queste designazioni si può discutere a lungo. Tanto più che l’andazzo continua anche ai nostri tempi, e dunque sui pro e sui contro ci si potrà dividere chissà quante altre volte. Ma se posso aggiungere una testimonianza personale ricordo che più di una volta egli si oppose a richieste e pretese che venivano dal “nostro” ambiente, mostrando come anche in quelle circostanze un manager potesse evitare di vestire panni che non sentiva suoi. A patto di volerlo, s’intende.
Con Alberto, poi, ho discusso in seguito tante e tante volte. Non gli farò il torto di dire che eravamo d’accordo. Anzi, il più delle volte io contestavo a lui un certo spirito conservatore e lui contestava a me qualche (raro) tratto più avventuroso. Avevamo visioni diverse e caratteri diversi. E il gusto della discussione ci portava a rimarcarli, da una parte e dall’altra. Ma in questi casi fa parte del rispetto, e anche della lealtà, non indossare la maschera delle circostanze. Cosa che non c’è mai capitata. Almeno, così credo.
Era un uomo di “sistema”, Brandani. La sua visione della politica era appassionata senza essere mai troppo romantica, realistica quanto bastava a sopravvivere in partibus infidelium, coriacea come si addiceva a un seguace di Amintore Fanfani. Direi che lui era un fanfaniano tra i più ortodossi, ma che a differenza del suo leader amava navigare lungo rotte più prudenti e circospette. Quelle cose che alle persone più giovani sembrano disdicevoli e rinunciatarie ma a cui il passare del tempo conferisce poi una certa saggezza.
So che gli ultimi mesi per lui sono stati atrocemente difficili. Ma anche quella difficoltà Alberto l’ha attraversata a modo suo. Sapendo che ci sono castelli che non si possono espugnare, ma che non è consentito levare le tende quando la difficoltà sembra avere ragione di te. E lui, le sue tende, non le ha mai levate.