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Astensionismo o disaffezione politica? L’analisi del prof. Ceri

Di Paolo Ceri

A una settimana dalla fine della tornata di elezioni amministrative, si può fare una valutazione sui perché dell’astensione, ma non solo. Quali comportamenti delle forze politiche portano l’elettorato a scegliere di non recarsi alle urne? L’analisi di Paolo Ceri, professore ordinario di Sociologia all’Università di Firenze

Il dato principale emerso dai ballottaggi delle elezioni amministrative è che, totalizzando il 54%, il “Partito dell’Astensione”, per dirla con Ilvo Diamanti, è stato “scelto” da più di un elettore e elettrice su due. È segno di un grave deficit di rappresentanza e, dunque, di malfunzionamento del sistema democratico. Urge pertanto comprenderne le cause; tanto più che la disaffezione per la politica e per i partiti è una storia di lunga data: in Italia dalle elezioni politiche del 1979 e, di nuovo, dal 2008 in avanti. Cosa non facile, se non altro perché il partito degli astenuti è internamente composito e assai mobile. Provare a darne ragione in una breve nota sarebbe ovviamente velleitario. Qui si può provare soltanto a indicare alcune tra le cause che concorrono a spiegare l’elevata astensione.

Due fattori, a mio modo di vedere, hanno assunto un peso crescente: la polarizzazione belligerante assunta dal confronto politico e la formazione difensiva dei governi. L’una e l’altra hanno contribuito a suscitare nell’elettore ambivalenze, cioè a generare in lui un mix di opinioni, atteggiamenti e sentimenti contrastanti.

Per un verso l’estremizzazione ostile, iperbolica e aggressiva che ha assunto la comunicazione – infiammata spesso e volentieri da false notizie, specie da parte delle forze sovraniste – mentre induce una parte degli elettori a schierarsi, rende un’altra parte refrattaria a fare altrettanto. Per l’altro verso, votare liste o partiti nella prospettiva di un’auspicabile quanto incerta formazione di un governo (specie a livello nazionale) frutto di alleanze percepite innaturali, pur di scongiurare un governo di segno opposto, se motiva una parte dell’elettorato a votare – composta dai più politicamente interessati dei due fronti -, ne demotiva un’altra, in ragione delle ambivalenze che genera.

Accade così che, di là dall’antipolitica e dalla disaffezione politica comuni a molti Paesi, in Italia tanto la polarizzazione politica quanto le alleanze difensive contribuiscano ad accrescere l’astensione elettorale e, più in generale, a ridurre la partecipazione politica. Posto dinanzi alla scelta di voto, l’elettore soggetto ad ambivalenza si trova infatti a non essere sufficientemente contrario al partito o alla lista X, senza essere abbastanza favorevole al partito o alla lista Y. Il dubbio, l’esitazione e la rinuncia che in sequenza ne derivano non sono “semplicemente” espressione della difficoltà di scegliere tra alternative programmatiche, in più spesso mal formulate e poco differenziate, bensì il segno, piccolo o grande a seconda dei casi individuali, di un dilemma morale e psicologico ancor prima e ancor più che politico. Ne segue che, sofferta o protestataria, quella di non votare s’imponga a molti come la soluzione, liberatoria.

Se le cose stanno così, se i fattori suddetti operano nel modo indicato, si può in buona parte spiegare perché nelle recenti amministrative l’effetto comune – l’elevata astensione – abbia gravato di più sulla destra, fino a determinarne la pesante sconfitta. Detto in estrema sintesi, l’operare congiunto della polarizzazione belligerante e delle alleanze “innaturali” ha avuto, infatti, la sua traduzione nel convergere di due dinamiche principali: l’effetto Draghi e l’antipolitica governativa. La locuzione di comodo “effetto Draghi” è qui intesa a indicare due ordini d’influenza esercitati sulla percezione e sui sentimenti dei cittadini: l’uno riassumibile nell’immagine che i partiti contino poco, a fronte dell’efficacia e dell’efficienza decisionale della leadership Draghi; l’altro ravvisabile nel depotenziamento del complottismo antiscientifico, a fronte dell’alto livello di sicurezza sanitaria conseguita dall’azione di governo.

Per parte sua, l’antipolitica governativa consiste nel continuare a esprimere istanze antipolitiche e anticasta pur facendo parte della compagine di governo – con persistente contraddittorietà nel caso della Lega, con riduzionismo istituzionale nel caso dei Cinque Stelle –, riuscendo in tal modo a ridurre la propria credibilità dinanzi ai rispettivi elettorati. Le connesse ambiguità decisionali e comunicative dei loro leader e le ambivalenze percettive di molti elettori hanno impedito il verificarsi di un consistente travaso dal bacino di voti variamente anti-establishment dal M5S alla Lega. Oltre alla dubbia qualità di certi candidati, è soprattutto grazie a queste dinamiche, che il livello dell’astensione è ulteriormente aumentato, specie nelle aree socialmente periferiche ed economicamente più sfavorite, con la conseguenza di assicurare la sconfitta della destra e, in parte, il successo del centrosinistra.

Pur ammesso che quanto detto contribuisca a far luce sul rapporto tra la disaffezione politica e l’astensionismo, resta il problema di accertare e capire quanto, come, quando la scelta di non votare configuri, per dirla con Albert Hirschman, una vera e propria exit del cittadino dalla partecipazione politica.

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