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Se gli Usa diventano una super-fabbrica di Bitcoin

Il bitcoin mining, ovvero il processo di estrazione dei bitcoin, è un sistema molto complesso con forti impatti ambientali. Sin dalla nascita delle criptovalute, la Cina ha dominato il mercato dell’estrazione, ma i recenti divieti imposti dal Dragone hanno reso gli Usa il Paese leader

I bitcoin sono generati virtualmente grazie ad un processo estremamente sicuro che si chiama bitcoin mining, che impedisce a un individuo di modificare il bitcoin di un altro. Esistono diverse modalità di estrazione, perché ogni miner crea una transizione di bitcoin unica da inserire nella rete virtuale mondiale. Due sono le opzioni: da una parte il mining di un singolo bitcoin, dall’altra quello di un intero gruppo, noto come pool mining.

La particolarità di questo processo sta nella sua complessità. Un singolo individuo con il proprio computer portatile non può estrarre bitcoin. Per fare mining bisogna avere apparecchi elettronici con una potenza di calcolo molto più maggiore di quella di un Pc. Se si volesse, invece, provare ad estrarre bitcoin con il proprio Pc bisognerebbe usare un software ad hoc che permette l’uso dei miner e aumenta la potenza.

Il mining però ha degli impatti molto forti sull’ambiente. Uno studio effettuato nel mese di settembre 2021 della Columbia University ha riportato che l’uso sfrenato di computer ad alta potenza, spesso raggruppati in un solo luogo dalle grandi aziende, usati proprio per fare mining, potrebbero innalzare il riscaldamento globale di 2 gradi. Il report ha sottolineato che in Cina, ad esempio, se le grandi Tech continuassero ad estrarre bitcoin allo stesso ritmo, entro il 2024 produrrebbero 130 milioni di tonnellate di Co2 in più.

Secondo uno studio recente della Britain Cambridge Centre for Alternative Finance riportato da Reuters, la Cina non è più però il primo miner al mondo. Gli Stati Uniti sono primi in classifica, seguiti dalla Russia (favorita per il suo clima freddo) e dal Kazakistan. Gli impatti ambientali potrebbero quindi cambiare dato che, sommando la produzione Usa a quella cinese calcolata a settembre, entro il 2024 si produrrà molto più Co2.

Poche settimane fa la Cina ha bandito il mining e le transizioni virtuali, bloccando così un intero mercato già fortemente colpito dalle regolamentazioni Tech del Dragone, iniziate a maggio. Una scelta che mira a bloccare l’uso illecito dei bitcoin ma anche a regolamentare un mercato libero, forse troppo. Gli Stati Uniti comunque ne sono usciti vincitori: il divieto imposto da Pechino ha portato infatti alcune aziende cinesi a spostare l’estrazione in territorio americano e ha aumentato le attività di mining delle Tech a stelle e strisce.

Gli Usa sono dunque la destinazione preferita per il bitcoin mining. Circa il 35% della potenza di calcolo ha sede in America. L’affluenza maggiore si registra in Texas, stato noto per i bassi costi di energia elettrica e grandi spazi inutilizzati . Ma la virata americana non è dovuta solo alla mossa cinese. Certo, il picco si è verificato all’indomani del divieto imposto da Pechino, ma gli Stati Uniti hanno iniziato molto prima a investire per diventare il nuovo “paradiso” dei bitcoin. Sarà ora compito dell’amministrazione Biden capire quanto questo nuovo afflusso limiti il raggiungimento degli obbiettivi volti a ridurre le emissioni di Co2 entro il 2030.



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