Calenda può vantare nella capitale un 20% che fa gola ai due sfidanti al ballottaggio, tanto da costringere subito gli ex compagni del Partito Democratico a correggere il tiro nei confronti del disturbatore, passato da candidato “leghista” e “di destra” a figura indispensabile per i progressisti. Ma è sul piano nazionale che i giochi saranno più complicati
Con la conferma del terzo posto, Carlo Calenda ha ottenuto il miglior risultato che potesse sperare da queste comunali. La mancata elezione a sindaco risparmierà all’europarlamentare l’onere di quella patata bollente conosciuta come Roma, che con la sua complessità può far cadere anche il migliore degli amministratori, e allo stesso tempo offre la vetrina perfetta per un’opposizione bisognosa di dimostrarsi concreta e cannibalizzare consensi. Questa sconfitta porta a casa due vittorie: quella morale di aver superato gli uscenti cinque stelle, principali avversari dell’epica calendiana, e quella più importante di aver dimostrato che Azione esiste al di fuori della bolla di Twitter.
Quest’ultimo è il più grande cruccio dei partiti minori del centro, la tangibile differenza tra l’attività sui social e la presenza territoriale, ed è il motivo per cui quest’area sembra non avere speranze fuori dalle coalizioni e dalle liste bloccate – in un’ipotetica sfida interna al centro, Calenda è al momento in testa allo schieramento superando i rimasugli di +Europa e i renziani di Italia Viva, ma il dato in sé non basta per capire cosa questo partito vuol fare da grande. L’idea del “terzo polo” (oggi chiamati riformisti) ha accarezzato tanti, ma pochi sono riusciti a superare la fase di disturbo, rientrando senza troppi proclami negli ex schieramenti di riferimento e da questo punto di vista Calenda gioca una partita che porta con sé conseguenze facilmente prevedibili. Con due opzioni al momento percorribili.
La prima, quella in cui molti dei suoi sostenitori sperano, è la costituzione del grande polo riformista, un progetto che nella più rosea aspettativa può puntare al 6% ma che se saputo sfruttare può essere un buon punteruolo per la maggioranza che verrà (e un ennesimo trampolino di lancio). Calenda ha un vantaggio che manca alle altre liste che occupano quello spazio: è quello che gode di consenso più trasversale. L’ex ministro si definisce ancora di centrosinistra, raccogliendo parte di quell’elettorato esasperato dal PD, “piacicchia” a destra per le sue prese di posizione su temi come l’immigrazione e per il profilo istituzionale, tutti fattori uniti nel collante del “pragmatismo” che sinora ha fatto la sua fortuna.
Un leader ingombrante è un vantaggio così come una penalizzazione, che come può ledere i partiti maggiori può essere fatale per quelli più piccoli. Gli esempi recenti di Renzi e Bonino parlano da soli, viene quindi da chiedersi se per Azione c’è vita oltre Calenda. Non è corretto tirare già le somme per un partito alla prima prova elettorale, ma nei comuni i due risultati importanti sono stati a Roma quello personale di Carlo Calenda e a Milano l’elezione dei due candidati consiglieri del partito, in coalizione con il sindaco uscente Sala ed il PD. Ed è quest’ultimo dato che porta alla seconda opzione, quella che annulla l’idea del polo esterno e guarda al centrosinistra.
Calenda può vantare nella capitale il primato della lista più votata, un 20% che fa gola ai due sfidanti al ballottaggio (e che salvo sorprese è già naturalmente indirizzato verso Gualtieri), un numero di voti tanto importante da costringere subito gli ex compagni del Partito Democratico a correggere il tiro nei confronti del disturbatore, passato da candidato “leghista” e “di destra” a figura indispensabile per i progressisti. Sebbene abbia già dichiarato di non volere nessun apparentamento, Calenda è conscio del suo nuovo potere contrattuale ed è qui che neanche tanto velatamente pone la sua condizione per un ritorno nel centrosinistra, il veto sui grillini.
L’unico ostacolo all’alleanza con Letta è oggi il patto dei democratici con i cinque stelle, ma per la natura stessa di questo accordo si potrebbe già siglare la riconciliazione (se non sono bastate le suppletive di Siena). Enrico Letta non è Nicola Zingaretti, il giallorosso più convinto, e il Movimento con il quale paventa un’alleanza è l’ombra di sé stesso che alla luce degli ultimi risultati elettorali può sperare di riciclarsi come un’Italia dei Valori più rumorosa. Se Calenda dimostrerà di portare più consensi dei pentastellati nell’area di centrosinistra, il segretario dem (che non nasconde il suo progetto di Ulivo 2.0) preferirà di gran lunga il competente che piace rispetto ai populisti, e se per Azione è la strada più comoda elettoralmente possiamo già suonare il requiem del polo riformista.
Anche una singola settimana può stravolgere il quadro politico, ma in questi anni la costante è sempre stata rappresentata dai due schieramenti maggioritari, ed è per questo che, anche se troppo presto, l’idea che Azione possa diventare l’ennesima lista a sostegno del PD non è tanto fantascientifica. La campagna elettorale è finita, possibilmente dopo il ballottaggio il quadro sarà più nitido, ma l’esempio di Calenda è solo l’ultimo di una questione che si ripete da trent’anni: tolti i suffissi “destra” e “sinistra”, in Italia c’è davvero spazio per il centro?