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L’America e la Chiesa cattolica. Le riflessioni del gesuita Murray

Di John Courtney Murray

A cura di Stefano Ceccanti, esce per la Morcelliana la nuova edizione del volume a firma del gesuita John Courtney Murray, Noi crediamo in queste verità, libro fondamentale per il cattolicesimo democratico Usa da Kennedy a Biden. Il testo verrà presentato al Centro Studi Americani il 27 ottobre e Formiche.net ne pubblica un estratto del primo capitolo dal titolo “E pluribus unum (La pubblica opinione americana)”

Il problema del pluralismo si caratterizzò in America, in una forma unica nel mondo moderno, e in particolare perché costituì l’atto di nascita della Società americana, e non fu, come in Europa ed in Inghilterra, il risultato della disgregazione e della decadenza di una preesistente unità religiosa. Pertanto fu in America che si concretizzò la possibilità di una nuova soluzione e sorse appunto l’esigenza di tale nuova soluzione. La Costituzione americana realizzò il conseguimento di quella possibilità ed il soddisfacimento dell’esigenza. Qui si considera quale sia la posizione della coscienza cattolica rispetto alla nuova soluzione americana di un problema che per secoli ha turbato, e tuttora turba, molte nazioni e società. Il carattere particolare della situazione sociale americana, l’ingegnosità del nostro recente sistema costituzionale, le lezioni della nostra storia nazionale, che ha fuso in modo speciale la coscienza ed il carattere del popolo americano, entro cui il cattolico condivide con i suoi concittadini una comune
eredità nazionale, pone un nuovo problema alla Chiesa universale.

La comunità cattolica ha il compito di rendersi intellettualmente conscia del particolare aspetto della propria coesistenza nella scena pluralistica americana. Abbiamo alle nostre spalle una lunga tradizione storica di accettazione della speciale situazione della Chiesa in America, così diversa dalle varie situazioni in cui essa si trova altrove. Ma qui si tratta di considerare il problema non secondo la prospettiva orizzontale della storia ma con una analisi svolta seguendo la dimensione verticale della teoria.

Il problema può essere diviso in due parti. La prima ci porta ad un’analisi del «principio americano» in relazione
all’unità politica. Si deve cercare una definizione, da ampliare in seguito, del contenuto essenziale della cosiddetta pubblica opinione americana, secondo la quale noi siamo e pluribus unum, costituiamo cioè una società che vive tra molteplici pluralismi. Per giungere nel modo più semplice a dare tale definizione basta dimostrare perché i cattolici americani partecipino con solerte convinzione alla pubblica opinione americana. La seconda parte della trattazione, che svilupperemo nel capitolo seguente, consiste nel fare un’analisi del «principio americano» in relazione al pluralismo religioso, in particolare per quanto riguarda il modo con cui tale «principio» viene inteso dalle nostre leggi fondamentali. Anche in questo caso, per condurre la nostra analisi nel modo più semplice basta chiarire i motivi per cui i cattolici americani accettano per principio l’unica soluzione americana al vecchio problema.

La nazione sottomessa a Dio

La prima verità cui si richiama il « principio americano » è fissata in quel caposaldo della teoria politica occidentale, che è la nostra Dichiarazione di Indipendenza. Si tratta di una verità che trascende la politica e ad essa conferisce un significato fondamentalmente umano, richiamandosi alla sovranità di Dio sulle nazioni come sugli uomini. Questo principio differenzia radicalmente la tradizione conservatrice cristiana d’America dalla tradizione laica giacobina dell’Europa continentale.

La tradizione giacobina affermava che la ragione autonoma dell’uomo è il primo e unico principio di organizzazione politica. In contrasto, il primo articolo della fede politica americana stabilisce che la comunità politica, come forma di vita umana libera ed ordinata, guarda alla sovranità di Dio come al primo principio della sua organizzazione. Nella tradizione giacobina la religione è più che altro un sentimento privato, una questione di devozione personale che non ha alcun valore per la vita pubblica. La società come tale, lo Stato che le dà forma legale, e il governo che è il suo strumento operativo, sono per definizione agnostici o atei. L’uomo di Stato pertanto, come tale, non può essere credente, e le sue azioni di uomo di Stato sono sottratte ad ogni imperativo o giudizio superiore alla volontà del popolo, nel quale si identifica l’ultima e piena sovranità (vale ricordare che nella tradizione giacobina «il popolo» si identifica con «il partito» ). Si tratta di un modo di pensare ovviamente lontano dall’autentica tradizione americana. Dal punto di vista del problema del pluralismo, questa distinzione radicale tra la tradizione americana e quella giacobina assume importanza fondamentale. Gli Stati Uniti hanno avuto, ed hanno tutt’ora, un gran numero di agnostici e di non credenti, ma non hanno mai conosciuto l’ateismo militante di modello giacobino, o socialista dottrinario, o comunista.

Nel 1799, l’anno del colpo di Stato napoleonico che rovesciò il Direttorio e stabilì la Dittatura in Francia, il presidente
John Adams enunciò, nel suo rimarchevole proclama del 6 marzo, il primo dei principi americani:

. . . È inoltre molto ragionevole che gli uomini che praticano arti e relazioni sociali, che devono il loro progresso
allo stato sociale e che ricavano da esso le loro soddisfazioni , debbano, in quanto componenti di una società, riconoscere la loro dipendenza ed essere riconoscenti a Colui che li ha dotati di queste capacità e li ha elevati nella scala della esistenza con queste distinzioni…

Il Presidente Lincoln il 20 maggio 1863 riconfermò la tradizione in un altro proclama:

… Poiché il Senato degli Stati Uniti, riconoscendo con devozione la suprema autorità ed il giusto governo dell’Onnipotente in tutte le questioni degli uomini e delle nazioni, ha deciso di richiedere al Presidente che venga scelto e riservato un particolare giorno da dedicare alla preghiera nazionale ed all’umiliazione; e poiché è dovere delle nazioni come degli uomini di riconoscere la loro dipendenza dal supremo potere di Dio, confessare i propri peccati e pentirsene umilmente, con la sicura speranza che un pentimento sincero apporterà la grazia ed il perdono …

L’autentica voce dell’America risuona in queste parole e costituisce una valida testimonianza della vitalità di questo principio fondamentale – la sovranità di Dio sulla società come sugli individui – tanto che il Presidente Eisenhower nel giugno del 1952 ha voluto sottolineare le precedenti parole di Lincoln in un proclama che aveva scopi analoghi.
Naturalmente il secolarismo americano ( che d’altronde costituisce una forza molto diversa per contenuto e finalità dal laicismo continentale) dissente da tale principio. Ma il dissenso secolaristico si definisce chiaramente come dissenso confermando in tal modo l’esistenza del principio americano, ed è continuamente contraddetto. Per esempio, nel 1952 un giudizio espresso dalla Corte suprema degli Stati Uniti lo contraddiceva con questa affermazione: « Noi siamo un popolo religioso le cui istituzioni presuppongono un Essere Supremo», e altre tre volte nel corso della storia – nel 1815, nel 1892 e nel 1931 -la Corte aveva formalmente espresso questo principio.

La tradizione della legge naturale

Le parole contenute nella famosa frase di Lincoln: «Questa nazione sottomessa a Dio», pone il «principio americano» entro un filone continuo della tradizione politica dell’Occidente. Ma questa continuità si presenta in modo ancor più evidente e con maggior rilievo sotto un altro punto di vista.

Nel 1884 il Terzo Concilio Plenario di Baltimora fece questa affermazione: «Noi consideriamo l’affermarsi dell’indipendenza del nostro paese, il fiorire delle sue libertà e delle sue leggi, come opera di una particolare Provvidenza, mentre quelli che ne furono gli artefici edificarono meglio di quanto sapessero fare, poiché li guidava la mano dell’Onnipotente».

Il carattere provvidenziale e i motivi di questo edificar meglio si possono rintracciare nel fatto che la comunità politica americana era già organizzata in un’epoca in cui la tradizione della legge naturale e dei diritti naturali era ancora in pieno vigore, e non esigendo altra sanzione oltre al suo appello alle menti aperte, e chiedendo l’accettazione universale, forniva i presupposti fondamentali per il sorgere della pubblica opinione americana.

Tutto ciò è stato confermato in modo convincente da Clinton Rossiter, nel suo libro Seedtime of the Republic 1 – uno studio erudito « sul nobile insieme di ‘verità evidenti ‘ che difesero la campagna per la resistenza (1765-1775), la proclamazione di Indipendenza (1776) e l’insediamento di un nuovo governo dello Stato (1776-1780)». Queste verità, egli aggiunge, « non furono meno evidenti anche per i predicatori, i mercanti, gli agricoltori ed i giuristi che costituivano l’intelligenza dell’America coloniale ». Si può inoltre aggiungere che queste verità si consolidarono saldamente durante tutto il lungo periodo di preparazione, di discussione e di decisioni, che portò alla Costituzione Federale. « La grande @osofìa politica del mondo occidentale – dice Rossiter – ebbe uno dei suoi più floridi periodi in quell’epoca di resistenza e di rivoluzione». Per questo la Rivoluzione americana, al contrario della Rivoluzione francese, fu più conservatrice che rivoluzionaria. Essa infatti, conservò, dandole una forma nuova e vitale, la tradizione politica liberale, la cui rovina nell’Europa continentale fu praticamente provocata dal primo grande moderno tentativo di totalitarismo.

La forza unitaria connessa a questa tradizione ebbe un peso di decisiva importanza nei confronti dei problemi del pluralismo. La Repubblica americana, essendo stata concepita entro la tradizione della legge naturale, fu salvata dalla sorte fatale, non ancora superata, che travolse le nazioni europee nelle quali il liberalismo continentale, deformazione della tradizione liberale, si era installato con l’aiuto non trascurabile delle Logge massoniche. Non ci sono mai state due« Americhe» nel senso in cui si sono avute due France, due Italie, due Spagne.

Sotto l’aspetto politico, l’America è sempre stata una sola: e ciò perché il pubblico consenso fu definito una volta per tutte e permane sostanzialmente operante anche nei settori in cui le sue origini sono già state dimenticate.

Teoricamente e ad un primo esame, questo pubblico consenso fu di natura politica, comprendendo un intero sistema
di princìpi relativi alla natura e alle origini della società, nonché alla funzione dello Stato come ordinamento legale della società, e ai fini e ai limiti del governo. «Governo libero» – e forse queste due parole di tono tipicamente americano riassumono il carattere del «pubblico consenso». Ma meglio si può renderne l’idea con quest’altra frase: « Un popolo libero sotto un governo controllato ». Una espressione molto chiara, tale da poter soddisfare quel primo liberale (Whig) che fu San Tommaso d’Aquino. Per i primi Americani il governo non era inteso come manifestazione di forza, come sarebbe stato più tardi per i positivisti legali, e neppure era inteso quale una « categoria storica» come l’avrebbero definito Marx e i suoi seguaci. Governo non significava soltanto potere coercitivo, anche se questo potere è proprio del governo. Il governo non rappresentava che il diritto di comandare; era l’Autorità, e la sua autorità derivava dalla legge, che d’altronde ne limitava le attribuzioni. Tom Paine dice con acutezza: «In America il Re è la Legge». Ma l’argomento era stato trattato ancora con più efficace precisione da Enrico di Bracton (m. 1268) quando diceva « Il re non deve essere soggetto agli uomini ma soltanto a Dio e alla legge, perché è la legge che fa il re ». Questo, che fu il messaggio della Magna Charta, costituì il perno del costituzionalismo americano. Costituzionalismo, la norma della legge, la nozione di sovranità in quanto puramente politica, e pertanto limitata dalla legge, il concetto di governo come impero delle leggi e non degli uomini – costituivano idee antiche profondamente radicate nella tradizione britannica fin dalle sue origini medioevali.

Il maggior contributo americano a questa tradizione – un contributo che influenzò tutta la successiva storia politica del mondo occidentale – fu la Costituzione scritta. Però il documento americano non può compararsi alla constitution octroyée delle Restaurazioni del diciannovesimo secolo – una Costituzione cioè graziosamente concessa dal Re o dal Principe. Presidente.

La Costituzione americana, seguendo le forme americane della Convenzione costituzionale e della ratifica popolare, è
esplicitamente un atto del popolo: e ne esprime il consenso per quanto riguarda gli scopi del governo, la sua struttura, l’estensione dei suoi poteri e i limiti che vi si pongono, ecc. È per mezzo della Costituzione che il popolo definisce i campi nei quali l’autorità è legittima e la libertà è legale. La Costituzione è dunque ad un tempo una Carta della libertà ed un piano di ordinamento politico.

Il principio del consenso

C’è un secondo aspetto della continuità fra il consenso americano e l’antica tradizione liberale, che si presenta nella affermazione del principio del consenso da parte di chi è governato. Sir John Fortescue (m. 1476), «Chief Justice of the Court of King’s Bench» durante il regno di Enrico VI, così definiva tale tradizione, distinguendo la monarchia assoluta dalla costituzionale: «Il secondo re (il monarca costituzionale) non può governare il suo popolo che a mezzo di leggi approvate dal popolo stesso e pertanto non può esercitare alcun potere senza il suo consenso».
Il principio del consenso era dunque legato all’idea medioevale della regalità; il re cioè era costretto alla necessità di ottenere l’approvazione del popolo alle proprie leggi. Il consenso americano riaffermava questo principio estendendolo nel contempo ad un più ampio contesto logico. Gli Americani erano infatti d’accordo nel concedere il loro appoggio soltanto alla propria legislazione, in quanto emanata dai propri rappresentanti che ne erano responsabili di fronte al popolo. In altre parole, il principio del consenso si accompagnava all’altro antico principio della partecipazione popolare al governo, ma poiché quest’ultimo principio venne col tempo ad assumere un’ampiezza di interpretazione mai prima conosciuta, ne risultò una sintesi nuova che si precisa nella frase di Lincoln «governo retto dal popolo».

Gli Americani si trovarono pure d’accordo nel formare un governo costituzionale e pertanto limitato secondo un nuovo significato, proprio in quanto rappresentativo, repubblicano, responsabile; e che è inoltre limitato non soltanto dalla legge, ma anche dalla volontà del popolo che esso rappresenta. Il popolo non solo approva la Costituzione, ma tramite il meccanismo delle rappresentanze, delle libere elezioni, e delle frequenti rotazioni dell’amministrazione, partecipa alla promulgazione delle leggi.

Il popolo in tal modo è veramente «governato»; i teorici politici americani non seguirono le fantasie dei seguaci di Rousseau; come potrebbe infatti l’individuo nella società obbedire solo se stesso? I popoli sono invece governati perché vogliono essere governati e lo vogliono perché in realtà sono essi stessi che governano.

Il consenso americano perciò esprime un grande atto di fede nelle capacità del popolo ad autogovernarsi, fede non
priva però di un concreto fondamento; non si pensava certo che ognuno potesse essere padrone della tecnica di governo anche in epoche in cui questa tecnica era certamente molto meno complessa di quanto non lo sia oggi, ma si riteneva invece che il popolo sarebbe stato capace di comprendere gli obbiettivi generali della politica del governo, le grandi iniziative su cui il governo doveva decidere; specialmente se queste avessero sollevato problemi di ordine morale.

Il consenso americano accettava le premesse della società medioevale, secondo le quali il popolo racchiude in sé per dono naturale quel senso della giustizia, in virtù del quale esso, secondo l’espressione medioevale, acquista il potere di «giudicare, dirigere e correggere » gli atti del Governo.

Fu questa fede politica a far sì che gli americani si trovassero innanzi tutto d’accordo nel sostenere le istituzioni della libertà di parola e della libertà di stampa. Secondo il concetto americano, tali istituzioni non si fondano sulla sottile teoria del razionalismo individualistico caratteristico del diciottesimo secolo, per cui un uomo ha diritto di dire ciò che pensa semplicemente perché lo pensa. Gli Americani si trovarono d’accordo nel respingere qualsiasi tipo di censura politica delle opinioni perché illegale, odiosa, imprudente, per non dire impossibile. Però, la vera premessa di queste libertà sta nel fatto che esse costituivano necessità sociali. Rossiter dice: «Il pensiero dei coloniali riguardo ciascuno di questi diritti aveva una forte ispirazione sociale piuttosto che individualistica». Si riteneva che essi fossero condizione essenziale per la guida di un governo libero, rappresentativo e responsabile.

Coloro che sono chiamati ad obbedire hanno per primi il diritto di essere ascoltati; coloro che devono subire imposizioni e fare sacrifici hanno per primi il diritto di esprimere la loro opinione sugli scopi per cui vengono richiesti i loro sacrifici; coloro i quali infine sono chiamati a contribuire al bene comune hanno per primi il diritto di esprimere il loro giudizio se il bene loro proposto sia veramente vero, un bene del popolo, un bene comune. Questo giudizio popolare espresso attraverso l’opinione della maggioranza riesce a vincolare effettivamente l’azione del governo. Un secondo principio condiziona queste libere istituzioni: il principio per cui lo Stato è separato dalla società e limitato nei suoi compiti verso la società. Anche questo è un antico principio tradizionale, che prima di essere travolto dal moderno e onnisciente Stato-società, prendeva significato dalla distinzione tra ordine politico e ordine della cultura, oppure, secondo il linguaggio del tempo, dalla distinzione tra studium ed imperium.

Tutto il mondo delle idee era in generale autonomo nei riguardi del governo ed era esente dalla disciplina politica che poteva agire solo sulle azioni, ma non sulle idee.

Anche la Inquisizione medioevale rispettava questa distinzione e non riconosceva mai un delitto di opinione, crimen opinionis; la sua competenza era limitata alla repressione di congiure organizzate contro l’ordine pubblico e contro il bene della comunità.

Era, se vogliamo, una commissione sulle attività non cristiane che considerava perseguibili dalla giustizia soltanto le attività, ma non le idee. Il «principio americano», ridando valore a quella distinzione tra società e Stato, che era stata sopraffatta dall’avanzata dell’assolutismo, restaurava anche il principio dell’incompetenza del governo nel campo delle opinioni. Il governo deve sottomettersi al giudizio della verità che esiste nella società.
La libertà dei mezzi di comunicazione per mezzo dei quali le idee possono circolare ed essere criticate, la libertà di ricerca (ci riferiamo all’insieme di istituzioni organizzate per 1a ricerca della verità e per perpetuare l’eredità intellettuale della società) sono immuni da strettoie legali e da controlli del governo.
Questa immunità è un diritto civile fondamentale, essenziale al concetto americano di un popolo libero sottoposto ad un governo controllato.

Un popolo virtuoso

«Popolo libero»: questa frase ha uno speciale significato nel contesto del «principio americano». L’America ha appassionatamente ricercato l’ideale della libertà, espresso da un intero sistema di diritti politici e civili, portandolo alle sue più alte espressioni; ma non ha ricercato questo ideale in modo tanto sconsiderato da precipitare oltre l’orlo dell’abisso, nel libertarismo assoluto, nel caos creato dalla teoria del diciannovesimo secolo della «coscienza fuori legge», conscientia exlex, quella coscienza cioè che non conosce altra legge al di sopra degli imperativi soggettivi. Parte della struttura intima dell’ideale americano di libertà si appoggia sulla convinzione profonda che solo un popolo virtuoso può essere veramente libero. Il credo americano non è che il libero governo sia inevitabile, ma che esso sia soltanto possibile e che esso possa realizzarsi solo quando il popolo nella sua totalità sia intimamente governato dagli imperativi riconosciuti della legge morale universale.

L’esperimento americano si basa non solo su quel postulato di Acton, secondo cui la libertà rappresenta il grado più elevato della società civile, ma anche sull’ulteriore postulato di Acton, che l’elevazione di un popolo al più alto grado di vita sociale presuppone che esso riconosca la natura etica della libertà politica. Esso deve capire, sempre secondo Acton, che la libertà non è «il potere di fare ciò che ci piace, ma il diritto di poter fare ciò che abbiamo il dovere di fare».

Il popolo afferma questo diritto in tutte le sue espressioni di fronte al governo, in nome di questo diritto molteplici limitazioni vengono poste al potere di un governo. Ma la esigenza può essere espressa in nome dell’autorità morale soltanto a condizione che essa derivi da un intimo senso di responsabilità verso una legge superiore.

In ogni sua fase la società civile ha bisogno di ordine, e quando ha raggiunto la fase suprema di libertà essa richiede che l’ordine non venga imposto, come una volta, dall’alto, ma nasca spontaneamente da una libera obbedienza alle limitazioni ed agli imperativi dettati da un intimo principio morale. In questo senso la democrazia è ben più che un esperimento politico: ma è un’impresa spirituale e morale il cui successo dipende dalla virtù del popolo che la intraprende. Gli uomini che vogliono essere liberi politicamente debbono essere capaci di autodisciplina, ed egualmente le istituzioni che aspirano a godere di una libertà umana devono essere interamente governate nella loro azione e corrispondere a finalità virtuose. La libertà politica si trova in pericolo alle sue fondamenta non appena i valori morali, sul cui comune patrimonio si basa l’autodisciplina di una società libera, non sono più abbastanza forti da frenare le passioni e da scuotere l’uomo dalla sua egoistica inerzia. L’ideale americano di libertà intesa come libertà ordinata, che è un ideale etico, si è tradizionalmente fondato su queste verità evidenti di per sé.



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