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Cosa può fare il G20 per il successo della COP26

“Il primo segnale è la condivisione della comune responsabilità delle grandi economie per l’adattamento ai cambiamenti climatici”, scrive Corrado Clini, già ministro dell’Ambiente

Roma ospita i leader del G20 mentre la Sicilia è flagellata da un uragano mediterraneo. Il G20 dedicato a energia e ambiente era stato anticipato dalla devastante alluvione in Germania e Belgio. Eventi descritti già dagli anni Ottanta come futuri climatici attesi per la metà del secolo, e che purtroppo in Europa come negli altri continenti risultano invece anticipati come risulta dal rapporto del Panel intergovernativo sui cambiamenti climatici pubblicato in agosto: negli ultimi 20 anni 7.500 eventi climatici estremi, quasi il doppio rispetto al ventennio precedente, con oltre 1.200 vittime e danni per quasi 3.000 miliardi di dollari.

Il primo segnale che G20 può dare a COP26 è la condivisione della comune responsabilità delle grandi economie per l’adattamento ai cambiamenti climatici, con l’impegno sia ad adottare standard comuni di uso e gestione del territorio e delle risorse naturali, sia ad aggiornare i programmi e gli impegni finanziari a favore delle economie più deboli e maggiormente vulnerabili.

Il G20 di Roma ha un portafoglio “teorico” di impegni importanti per la decarbonizzazione delle grandi economie, ai quali tuttavia non corrispondono politiche e misure conseguenti. Solo la Cina e, in parte, l’Europa hanno messo “con i piedi per terra” programmi di medio (2030) e lungo termine (2050-2060) per ridurre le emissioni dei gas ad effetto serra fino al loro azzeramento. Il programma di Joe Biden è ancora incagliato al Congresso. L’Arabia Saudita è l’ultima dei Paesi “intermedi” ad avere adottato un programma di decarbonizzazione, dopo Canada, Corea del Sud, Giappone e ovviamente Regno Unito. Invece, Russia, India, Indonesia, Brasile non hanno dato al momento indicazioni su tempi e obiettivi, e la loro assenza non è di poco conto.

Questo è la cornice nella quale si inserisce l’aumento dei prodotti energetici, e in particolare del gas, che sembra voler indicare alle grandi economie la “fragilità” delle strategie di decarbonizzazione.

Ma la crisi climatica non lascia margini e il rapporto appena pubblicato dalle Nazione Unite dice in modo rude che stiamo andando nella direzione sbagliata, con le emissioni che continuano a crescere e una previsione di aumento della temperatura fino a 2° C entro il 2050. Sarebbe una segnale molto negativo se il G20 rinviasse un impegno collettivo per la decarbonizzazione dell’economia globale, non solo e non tanto per la COP26 quanto per il presente e il futuro delle giovani generazioni.

Per esempio potrebbe essere ripresa l’indicazione del G20 di Venezia per l’introduzione di una tassa globale sul carbonio, mentre potrebbe essere utile l’istituzione di un “tavolo permanente” di lavoro per la valutazione comparata ed il coordinamento delle politiche e delle misure di decarbonizzazione adottate da ogni singola economia.

La decarbonizzazione delle economie è una partita complessa, che richiede una valutazione integrata e in parallelo delle politiche e della fattibilità delle misure necessarie. Per esempio, in Europa, sarà necessario accompagnare la riduzione progressiva dei combustibili fossili, gas ma anche carbone e prodotti petroliferi, con la crescita contestuale delle fonti rinnovabili, del nucleare e dell’idrogeno verde.

Questo richiede un programma “a scacchiera”, perché non si può immaginare l’eliminazione dei combustibili che garantiscano la sicurezza energetica senza avere disponibili le alternative in misura corrispondente a quello che si elimina.

Quello che vale per l’Europa vale anche per la Cina, per gli Stati Uniti, per l’India, per il Brasile, eccetera.

Il processo positivo verso la decarbonizzazione è iniziato nel 2020, con gli impegni prima dell’Europa e poi della Cina, seguiti nel febbraio 2021 da Biden che è tuttavia è ancora alle prese con un complicato confronto interno.

Insomma abbiamo avuto poco tempo, per organizzare e coordinare un confronto tra le grandi economie sui programmi, ovvero sulle misure comuni da adottare.

E sarebbe ingenuo pensare che tematiche trasversali all’economia e alla sicurezza dei singoli Paesi possano essere affrontate senza competizioni e conflitti tra i vari interessi in gioco. Ma il G20 può dare un contributo importante, indicando una strada per il futuro senza rimpianti. E questo sarà molto utile nella sede negoziale della COP26.

Infine, è evidente che la partita del clima si inserisce nella competizione “incrociata” tra le grandi economie, Stati Uniti, Cina, Europa, India, Russia, Arabia Saudita. Ed è evidente che in particolare pesa molto la competizione/conflitto tra Stati Uniti e Cina.

Se dovesse prevalere la tendenza al conflitto, sarebbe utile leggere prima e con molta attenzione sia il rapporto di Ipcc sul futuro del clima sia gli scenari di riferimento della strategia europea di adattamento ai cambiamenti climatici attualmente all’esame del Parlamento europeo. Solo per avere un’idea di quello che ci aspetta se non riusciremo in questo decennio a costruire un sistema di cooperazione tra le grandi economie che, pur nella competizione, eviti i conflitti.


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