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Dopo il bla bla bla, è tempo di agire sul clima. Ecco le chance per l’Italia

Meno di un mese all’inizio del G20 e della Cop26. A che punto sono Cina, Europa e Usa? L’analisi di Corrado Clini, già ministro dell’Ambiente

A conclusione della Pre Cop di Milano, il ministro della Transizione ecologia Roberto Cingolani ha rilevato come la pressione dei giovani abbia aiutato i ministri a passare dalla protesta alla proposta e ha messo in evidenza che la Cina ha confermato l’impegno (già preso a Parigi) di puntare alla limitazione dell’aumento della temperatura entro 1,5°C. Cingolani ha anche giustamente ricordato che la transizione richiede la riduzione progressiva delle fonti fossili (e in particolare il gas naturale) nell’economia europea attraverso misure concrete e fattibili, ovvero attraverso un piano di medio lungo termine che assicuri gli approvvigionamenti di energia necessari alla trasformazione dell’industria e dell’economia.

Il vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans ha ricordato l’impegno di riduzione del 55% delle emissioni approvato dalle istituzioni europee e il pacchetto di norme proposte nel FitFor55 dalla Commissione in attuazione del Green Deal.

John Kerry, inviato del presidente statunitense Joe Biden per il clima, ha definito necessario un piano per concludere con successo la Cop26 di Glasgow e si è detto fiducioso per la partecipazione di Cina e India allo sforzo comune per la riduzione delle emissioni.

Dunque, il negoziato sui cambiamenti climatici potrebbe entrare nel vivo attraverso un confronto che vada oltre i documenti depositati dai singoli paesi in attuazione dell’Accordo di Parigi, i National Determined Contributions (NDCs).

Il 17 settembre scorso le Nazioni Unite hanno rilevato che sulla base degli impegni esposti dai singoli Paesi negli NDCs, nel 2030 le emissioni saranno superiori del 16% rispetto ai livelli del 2010, mentre per raggiungere l’obiettivo di 1,5°C le emissioni dovrebbero essere ridotte del 45%. È evidente il gap, e come rilevato a conclusione di Milano questo non è più il tempo del confronto sulle “formule” diplomatiche da usare per un accordo (bla, bla, bla?).

La sfida è prima di tutto nelle mani delle grandi economie: i loro programmi possono determinare la direzione e i tempi per orientare la decarbonizzazione dell’economia globale. I front runner sono ovviamente Europa, Cina e Stati Uniti, che devono dare seguito agli impegni assunti con misure concrete. Non solo, i tempi stretti richiedono anche che le tre grandi economie siano disponibili a un confronto sui rispettivi programmi, per individuare i punti di convergenza che consentano di adottare misure omogenee su scala globale e promuovere le sinergie necessarie per accelerare i tempi dello sviluppo delle tecnologie e delle soluzioni alternative all’impiego dei combustibili fossili.

Anche perché, come ha ricordato Kerry a Milano, nessun Paese e nessuna economia si possono proteggere dal cambiamento climatico senza un’azione globale. E, come ha evidenziato nel 2020 uno studio della Deutsche Bank, il decoupling “rallenterà l’innovazione tecnologica verso le soluzioni low carbon, con un costo aggiuntivo di almeno 3.500 miliardi di dollari nei prossimi 5 anni”. Insomma, la sfida dei cambiamenti climatici richiede risposte in controtendenza rispetto alla guerra fredda, o decoupling, come si dice oggi.

A che punto siamo?

Partiamo dalla Cina, che in questi mesi è stata chiamata in causa come la grande assente. Il 29 settembre, in contemporanea con il meeting di Milano, l’Agenzia internazionale dell’energia ha pubblicato il rapporto “An Energy Sector Roadmap to Carbon Neutrality in China”, predisposto su richiesta di Pechino, che ha richiesto la collaborazione dell’Agenzia per la messa a punto delle strategie di lungo termine per raggiungere la piena decarbonizzazione del settore energetico della Cina. L’Agenzia ha preso in esame gli impegni e i programmi già adottati in tutti i settori, e senza entrare nei dettagli del rapporto, va segnalato che è previsto il “picco” di consumo dei combustibili fossili entro il 2030 (carbone in leggera diminuzione, prodotti petroliferi e gas naturale in crescita di circa il 20%) con il contestuale raddoppio delle fonti rinnovabili e del nucleare. Va detto che la leggera diminuzione del carbone nel 2030 è il risultato della sostituzione – in atto – di centrali vecchie e a bassa efficienza con nuovi impianti sempre a carbone ma con maggiore efficienza e basse emissioni.

A partire dal 2030 il rapporto segnale un trend di progressiva e rapida riduzione dell’impiego dei combustibili fossili in tutti i settori dell’economia fino al 2060, quando è previsto che rinnovabili e nucleare coprano almeno l’80% della domanda di energia.

Il rapporto riconosce che “la Cina ha un percorso chiaro per costruire un futuro energetico più sostenibile, sicuro e inclusivo” e suggerisce ulteriori misure considerate fattibili dal punto di vista tecnologico ed economico per accelerare i tempi a partire da un anticipo del “picco” entro il 2025. E, quasi in contemporanea con il rapporto dell’Agenzia, e in pieno meeting di Milano, l’economia mondiale ha avuto un chiaro segnale delle misure adottate dalla Cina per la riduzione dell’impiego del carbone attraverso il fermo delle centrali elettriche che avevano superato il budget di emissioni assegnato.

Insomma, la Cina ha un programma in corso per la decarbonizzazione dell’economia, già sottoposto a una valutazione terza. Europa e Stati Uniti con la Cina possono dunque confrontarsi su numeri e previsioni.

L’Europa è stata la prima ad assumere un impegno unilaterale per la “neutralità climatica” entro il 2050 ed è stato il motore di un processo che ha portato prima la Cina e poi il presidente Biden a condividere gli stessi obiettivi.

Le due pietre miliari della strategia europea sono il Green Deal, approvato il 15 gennaio 2020, e la Climate Law, che impegna l’Europa a ridurre le proprie emissioni del 55% entro il 2030 rispetto al 1990, approvata il 28 giugno scorso. Il pacchetto delle misure tra loro “interconnesse e complementari” per dare attuazione al Green Deal e alla Climate Law è il cosiddetto FitFor55, presentato dalla Commissione a metà luglio. Il pacchetto prevede la revisione e l’aggiornamento di direttive e regolamenti europei per la crescita delle fonti rinnovabili e l’aumento dell’efficienza energetica, la tassazione minima sull’energia allo scopo di rendere meno competitivi i combustibili fossili, l’estensione del mercato dei permessi di emissione già applicato nell’industria ai trasporti ed al consumo energetico nell’edilizia, nuovi standard di emissione degli autoveicoli e la fine della produzione di veicoli con motori a combustione interna a partire dal 2035, l’introduzione di una tassa sul carbonio sui prodotti importati da paesi che non hanno misure simili a quelle europee, l’ampliamento della capacità di assorbimento del carbonio atmosferico attraverso la crescita delle foreste (3 miliardi di nuovi alberi entro il 2030) e nuovi standard per la gestione dei suoli e la protezione della biodiversità. FitFor55 è all’esame degli Stati membri e del Parlamento, e la sua approvazione non è affatto scontata.

In molti hanno osservato che la dimensione del pacchetto appare sproporzionata rispetto al peso limitato delle emissioni dell’Unione europea (9%) sulle emissioni globali, e che le misure sono “frutto del fanatismo ecologista”. All’opposto altri osservano che l’applicazione del Green Deal e della Climate Law avrebbe richiesto misure più severe. Molte obiezioni, compresa quelle autorevoli di Romano Prodi e del presidente della Commissione Ambiente del Parlamento europeo Pascal Canfin, fanno riferimento all’aumento dei costi dell’elettricità e dei trasporti che sarebbe inevitabile, e con un impatto sociale devastante, se venissero estesi il mercato dei permessi di emissione con un aumento del costo della CO2. Altre obiezioni fanno riferimento alla concorrenza “sleale” della Cina, che da un lato non avrebbe assunto impegni concreti per la riduzione delle emissioni globali e dall’altro trarrebbe vantaggi sia dall’aumento delle fonti rinnovabili che dalla estensione della mobilità elettrica in Europa perché detentrice delle materie prime e delle tecnologie. Come abbiamo visto IEA non sembra della stessa idea sulla concorrenza sleale. Per quanto riguarda l’aggiornamento delle tecnologie per le fonti rinnovabili, questo deve essere un terreno di sviluppo per le competenze e le imprese europee, anche in collaborazione con la Cina, gli Stati Uniti, il Giappone, la Corea.

Purtroppo, soprattutto per l’esperienza italiana, le rinnovabili sono terreno della speculazione finanziaria piuttosto che dell’innovazione tecnologica. E da questa “lente” nascono le obiezioni ai nuovi obiettivi europei.

Meritano anche menzione le critiche all’introduzione di nuovi standard per le emissioni dagli autoveicoli e per lo stop alla produzione di motori a combustione interna dal 2035, che tuttavia sembrano aver dimenticato la lezione del Dieselgate ovvero della crisi di competitività nel mercato globale per la mancanza di aggiornamento delle tecnologie. Vogliamo continuare a vendere diesel agli europei mentre il resto del mondo va elettrico e (forse) a idrogeno?

Intervenendo il 14 settembre al Parlamento europeo, Timmermans ha risposto a critiche e obiezioni, ricordando come è ovvio che gli Stati membri e il Parlamento hanno la facoltà di modificare il pacchetto. Ma ha anche rilevato che Green Deal e Climate Law rappresentano un impegno che va rispettato con misure adeguate, anche perché il rapporto del Panel intergovernativo sui cambiamenti climatici non dà molti margini e non lascia tempo ai rinvii: “Il costo del non fare sarà molto più alto del prezzo da pagare agli eventi climatici estremi anche in Europa” (170 miliardi di euro all’anno). Timmermans ha anche confermato la valutazione sugli effetti economici del pacchetto, riconoscendo l’impatto profondo sulla attuale struttura dell’industria europea con i relativi costi, ma mettendo in evidenza nello stesso tempo il valore positivo delle trasformazioni indotte dal pacchetto sulla crescita economica e la competitività dell’economia europea: non a caso parliamo di transizione da un sistema a un altro. Concentrarsi sugli aspetti negativi comporta il rischio di mettere l’Europa fuori gioco, ovvero di perdere l’occasione di essere il “traino” dell’innovazione e del cambiamento lasciando il testimone alla Cina e forse agli Stati Uniti.

Nel merito delle obiezioni Timmermans ha messo in evidenza che il recente aumento delle tariffe elettriche dipende solo per un quinto dal prezzo della CO2 nel mercato europeo dei permessi di emissione. È stato poi ricordato che FitFor55 prevede l’istituzione di un “fondo sociale” di 72 miliardi di euro per compensare i costi sociali delle misure. Insomma, a un mese dalla riunione del G20 e dall’inizio della Cop26 l’Europa non è ancora pronta a presentare il suo programma e questo non solo limita fortemente la sua influenza ma condiziona fortemente il risultato di Glasgow. Sarebbe forse opportuno che l’Italia, come presidente del G20 e co-presidente della Cop26, sollecitasse Stati membri e Parlamento a dare il via libera a FitFor55 con flessibilità e clausole di revisione connesse al merito delle singole direttive e regolamenti.

Tenendo conto che le tre maggiori economie stanno affrontando la transizione con specifiche e in parte contrapposte situazioni: la Germania sta uscendo da nucleare e per questo prevede il prolungamento dell’uso del carbone almeno fino al 2035 mentre nello stesso tempo aumenta considerevolmente la quota di gas importato dalla Russia; la sicurezza energetica dell’Italia dipende dal gas ameno per tutto il decennio; la Francia intende rafforzare il ruolo del nucleare. E tenendo conto che l’intera Europa non ha – con le tecnologie attuali – la potenzialità per aumentare la quota di fonti rinnovabili fino agli obiettivi previsti dal pacchetto, e che pertanto va presa in considerazione la possibilità di approvvigionarsi di energia rinnovabile attraverso interconnessioni elettriche con paesi ad alto potenziale, in primis Nord Africa e Medio Oriente.

Infine gli Stati Uniti. Kerry ha detto a Milano che è necessario un piano per concludere con successo Cop26 a Glasgow. Ma le misure per dare attuazione alla Clean Energy Revolution annunciata dal presidente Biden non sono ancora diventate un programma legislativo e finanziario. Anzi, l’opposizione dei repubblicani e i conflitti all’interno dei democratici stanno complicando il percorso legislativo delle proposte di Biden, nonostante l’appello di Nancy Pelosi per l’approvazione del Build Back Better Act considerato strategico per la credibilità degli Stati Uniti e del presidente Biden “che andrà a Glasgow e noi vogliamo che vada con la legge approvata”.

L’approvazione di FitFor55 potrebbe forse essere un motivo “esterno” molto forte per sostenere l’approvazione di Build Back Better Act. In questa prospettiva, la presidenza italiana del G20 potrebbe giocare un ruolo positivo.

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