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Vaccino a produzione italiana, un passo verso il futuro. Parla Guido Rasi

Guido Rasi, ex- presidente di Ema e consigliere scientifico del commissario Figliuolo fa un punto con Formiche.net sulla produzione dei vaccini Pfizer in Italia: “Potenziare tutta l’industria farmaceutica, rendendo il mercato più attrattivo”

Il 18 ottobre l’Ema ha autorizzato l’infialamento del vaccino prodotto da Pfizer- BioNTech presso uno stabilimento di Monza, gestito da Patheon Italia SpA, e uno di Anagni, gestito da Catalent Anagni SRL. Ha approvato inoltre una nuova formulazione che prevede migliori opzioni di stoccaggio, trasporto e logistica per la distribuzione e la somministrazione del vaccino. È un passaggio importante per la produzione farmaceutica italiana. Ne abbiamo parlato con l’ex- presidente di Ema e consigliere scientifico del commissario Figliuolo, il prof. Guido Rasi, che ci ha spiegato quanta strada l’Italia debba ancora compiere (tanta) e cosa cambia, se qualcosa cambia, da ora in poi.

Il premier Draghi si è espresso più volte sulla necessità di aumentare la produzione dei vaccini, anche attraverso un impegno diretto dell’industria farmaceutica in Italia. Gli sforzi del ministro Giorgetti e dell’ex ministro Tria, in collaborazione con Farmindustria, registrano un altro risultato importante. Cosa significa per l’Italia che l’Ema abbia approvato l’infialamento dei vaccini Pfizer-BioNTech negli stabilimenti di Patheon (Monza) e Catelent (Anagni)? Cosa cambia, se qualcosa cambia, per la campagna vaccinale italiana ed europea?

La campagna vaccinale italiana è ormai consolidata, anche per quanto riguarda l’Europa il numero delle dosi è ampiamente garantito. Nell’immediato potremmo dire che non cambia troppo. Cambierebbe invece per il futuro, e sicuramente in modo sostanziale, se questo virus dovesse diventare endemico. Allora sì che avere in casa la possibilità di chiudere l’intero arco produttivo sarebbe certamente determinante. Naturalmente stiamo parlando ancora di un primo step, se così vogliamo vederlo. Commentiamo un passo che segnala la bontà della produzione italiana e che ci fa rimanere i primi produttori di prodotto finito – sempre e solo a un passo da Francia e Germania – ma sicuramente c’è ancora molto da fare. È sicuramente una notizia positiva, ma è appunto un primo passo, che ci dice però che iniziamo a muoverci nella direzione giusta. Il dialogo si muove nella direzione giusta, prima non era così. Oggi finalmente tutte le parti riconoscono l’urgenza di intervenire strategicamente sulle politiche di produzione del farmaco, cambiando il contesto normativo, snellendo la burocrazia, ottimizzando i controlli.

Cosa dovrebbe fare l’Italia per implementare la potenza tecnologica necessaria a sostenere l’intera supply chain del vaccino?

Mancano almeno quattro o cinque passaggi strutturali. In campo farmaceutico, per quanto riguarda l’Italia, abbiamo bisogno di un piano industriale “organico”. Iniziando con l’incentivare la ricerca e la sperimentazione, e fino a rendere attrattiva la competizione nel campo della produzione, si tratta di investire globalmente sul farmaco. È certamente un bene che la fase finale della produzione venga eseguita in stabilimenti italiani, ma se i nostri ricercatori devono andare fuori perché in Italia la ricerca è disincentivata, non risolveremo mai il problema. Stesso discorso per l’impresa farmaceutica, che ha bisogno di essere rilanciata in ogni sua dimensione. Possiamo dire che la nostra ambizione dev’essere quella di vedere la produzione del prodotto finito appunto come l’ultimo anello di una catena che muove l’industria farmaceutica italiana, per l’Italia, e non il primo.

E per la competizione/collaborazione tra le aziende che producono i vaccini? Ha senso pensare ad una riconversione delle strutture, e quindi una differenziazione e un’estensione funzionale degli stabilimenti, mediata dalle organizzazioni europee? Quali sono i principali ostacoli ad una strategia del genere?

Una strategia europea deve passare inevitabilmente per le leggi della competitività e del mercato. Penso che la sfida non consista nell’ipotizzare una sorta di regia europea nella produzione privata, cosa tra l’altro impossibile oltre che improbabile, e in fondo controproducente. La competizione alimenta l’innovazione. Anche e soprattutto di fronte a competitors importanti, la chiusura in un modello pseudo-egalitarista non è una soluzione, ma la soluzione è invece far valere per l’Europa quello che dicevamo per l’Italia, ossia rendere attrattivo il mercato europeo.

Pensiamo di fronte alla Cina o all’India…

Appunto. Noi puntiamo sull’eccellenza. L’Europa e l’Italia sono un contesto già molto fecondo da questo punto di vista, la vera sfida però è diventare più pragmatici. Questo è il punto. C’è bisogno di cambiare rotta su alcune questioni dirimenti. Tantissime in realtà. Pensiamo all’uso e alla gestione dei dati, o alla privacy, solo per dirne qualcuna. La regolamentazione va fortemente ripensata, e in qualche modo cominciamo a muoverci in questa direzione. Il punto davvero nodale è incentivare la ricerca e la competizione per essere un mercato sempre più attrattivo, che produce innovazione e genera visione. Ma per questo è necessario alleggerire i processi burocratici e non irrigidirli. Per questo è necessario promuovere le iniziative vincenti e non fossilizzarsi in piani quinquennali (o qualcosa del genere) in cui viene detto ad ogni Paese chi fa cosa, e come. C’è poi un discorso meramente pragmatico, di buon senso. Incentivare la ricerca e ottimizzare i controlli significa per l’Europa, ad esempio, capire quando è il caso di optare per un approccio bottom up e quando per uno top down rispetto, per dire, alla ricerca. È chiaro che se ci si trova di fronte ad un’emergenza che richiede una soluzione rapida i fondi destinati alla ricerca dovranno essere canalizzati in modo ottimale, altrimenti stiamo disperdendo. O ancora, a volte si può selezionare un prodotto attraverso un bando pubblico, altre volte non si ha il tempo di passare per un bando pubblico e occorre essere in grado di avviare una negoziazione più rapida con i produttori o gli istituti di ricerca (come è successo). Si tratta sempre di valutare pragmaticamente.

Per quanto riguarda la ricerca, alcune aziende leader nella produzione dei vaccini, come Pfizer, stanno in questo momento sperimentando un vaccino più efficace contro la variante Delta (III e IV fase). Quali sono, ad oggi, i tempi di un eventuale accesso a questa risorsa? Come ridurli? Quali criticità caratterizzano l’accesso ai vaccini sperimentali?

Alcune precisazioni. La variante Delta in questo momento non è la nostra priorità. Per le case farmaceutiche vale lo stesso. Bene o male i vaccini esistenti rappresentano una protezione adeguata. La vera urgenza, che non possiamo in alcun modo sottovalutare, si avrebbe nel momento in cui ci trovassimo di fronte ad una variante che sfugge completamente al nostro controllo. Allora sì che una capacità di produzione vaccinale davvero imponente sarebbe quantomeno un prerequisito necessario. Per quanto riguarda invece i tempi di approvazione, c’è da dire che di fronte ad un’emergenza del genere sarebbero rapidissimi. La macchina burocratica è già stata profondamente alleggerita in questo senso. Il vero scoglio non è quello amministrativo, il vero problema sarebbe proprio la produzione. È lì che dobbiamo lavorare.

Il Comitato per i medicinali umani dell’Ema (Chmp), ha inoltre approvato – nella stessa nota – una formulazione di Comirnaty che non richiede diluizione prima della somministrazione, che sarà disponibile in confezioni da 10 flaconcini (60 dosi) e può essere conservata a 2-8°C per un massimo di 10 settimane. Quale impatto sui tempi della vaccinazione?

In Italia, e in generale in Europa, dove la campagna vaccinale è già ampiamente consolidata, questo non implica grandi stravolgimenti in realtà. Certamente la riduzione dei tempi di distribuzione e una maggiore facilità nella logistica possono significare un grande vantaggio per il futuro, ad esempio se dovremo affrontare un richiamo annuale del vaccino contro il Covid. Ma soprattutto facilitano l’accesso ai vaccini a quelle aree del mondo che hanno, appunto, dei problemi logistici importanti. Costeranno un po’ di più? Forse sì. Ma sarà un costo certamente inferiore a quello che affronteremmo se il virus continuasse a circolare, e in modo ancora più immediato, naturalmente abbatterebbe i costi di logistica.

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