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Lega tra Bossi e Salvini. Sapelli spiega una exit strategy

Quando un partito tocca il fondo, può rialzarsi subito. Dal Papeete al caso Morisi, la Lega ha incassato il colpo. Ora può trovare una via d’uscita, che coniughi Bossi e il Monviso, Roma e Salvini. Il commento di Giulio Sapelli

In Italia la storia si sta rimettendo in moto. Gli operai non si arrendono né alla catena di morti sul lavoro, né alla fine di quelle relazioni  industriali fondate sulle reciproche responsabilità sostituite dal meccanismo impersonale degli avvocati e dei magistrati del lavoro, che hanno tolto il sangue vitale tanto ai padroni quanto agli operai e ai lavoratori tutti, per non parlare poi dei mercenari manageriali che di responsabilità non ne hanno nessuna se non per la movida delle stockoption.

La vecchia talpa si è rimessa in movimento e lo stesso hanno fatto i partiti. La disgregazione sociale e partitica può trasformarsi in trasformazione. L’esempio più lampante  è ciò che accade nel rapporto della Lega, ora diretta da Matteo Salvini, con le forze della centralizzazione capitalistica europea e delle macchine dei partiti dell’Unione.

La Lega, con le sue convulsioni demagogiche, della possibilità di una trasformazione benefica è l’esempio più evidente: quando si toccano i punti più bassi nella storia dei partiti, come sta succedendo con il caso Morisi e il Papeete, è inevitabile che o si crolli oppure ci si trasformi.

Nel caso della Lega ritornando alla tradizione, pur nel cambiamento. Le due storie che porta con sé, tutte e due incarnate dal vecchio Umberto Bossi – sia demagogo ed esoterico con i riti dell’acqua del Monviso, sia produttivista con la tradizione del lavoro dignitoso e più bavarese e svizzero e ben lontano dalle sirene del vecchio Regno di Napoli (di cui è anche fatta la storia di un’Italia annessa e mai unificata) – ebbene, queste due anime incarnate nell’unico Bossi e che si sono inevitabilmente divise per effetto della  leadership di Salvini, stanno per scontrarsi: si avvia una resa dei conti, una trasformazione.

Dobbiamo augurarci che si apra un vero dibattito politico, un reale confronto, così come sarà invitabile in Germania, dinanzi a una macchina dei partiti che ha dei protagonisti diversi come non mai e che non potranno che far risorgere la discussione nell’opinione pubblica, nella polemica e nella lotta politica.

La Spagna, con la scarcerazione in Sardegna di Carles Puigdemont, non potrà non ritornare anch’essa al dibattito politico piuttosto che alle sentenze dei tribunali, rimettendo in moto la storia di tutto il Paese, avviato a una riflessione profonda: una riflessione costituzionale.

La stessa cosa sta accadendo in Francia, con il crollo di Emmanuel Macron e la ricomposizione lenta, ma sicura, di un neo-gollismo alla ricerca di se stesso: ed ecco il caso di Éric Zemmour, il quale, con la sua origine ebraico-berbera, è la riprova del destino mediterraneo e pur sempre giudaico-cristiano dell’Europa.

Zemmour sfida Marine Le Pen e insieme Macron, in quel “retour de Clovis”, un richiamo allo slancio di Clodoveo che Philippe de Villiers aveva invocato anni orsono: il ritorno alla grandezza di una Francia tranquilla della forza della sua tradizione. Tradizione che è la radice culturale dell’Europa che tutti vogliamo, o dovremmo volere.

Anche l’Italia può trasformarsi e non disgregarsi ancora. Ciò potrà accadere se il ribellismo rapidamente mutatosi  in trasformismo dei 5 stelle non trascinerà nel suo gorgo antipolitico – demagogico ed eterodiretto confucianamente, anche ciò che rimane delle tradizioni democristiana e comunista che hanno dato vita all’amalgama non riuscito del Pd. Un fallimento che purtroppo si profila dopo la nomina del suo segretario Letta a prefetto francese nell’Italia politica, che per trasformarsi ha invece bisogno di ritrovare se stessa per  rimettersi in moto.

Che lo faccia con una nuova manovra dall’alto – che tuttavia possa aiutare ciò che rimane di una nazione a  riprendere il cammino della politica – dipende dal ruolo che saprà svolgere Mario Draghi. Non come demiurgo di sorta, osannato impenitentemente e senza pudore dai cantori del “canglor di buccine” gozzaniano (lo squillo delle trombe di guerra), ma come chi può invece veder trasformato se stesso da civil servant a Presidente della Repubblica: è ciò che oggi servirebbe all’ Italia e di riflesso anche all’Europa.

Certo, più utile a una vera rigenerazione sarebbe seguire il cammino greco, prima ricordato, di ricostruzione dal basso della lotta politica. Ma nel caso italiano ormai è solo una operazione innovatrice guidata dal vertice istituzionale che può provocare, con il voto e il ritorno alla democrazia parlamentare dispiegata, una trasformazione benefica della vita pubblica e quindi dell’Italia in Europa e nella Unione.

Come ha fatto van Middelaar, bisogna rileggere sempre questa frase di Giorgio Guglielmo Federico Hegel, uno dei passi iniziali della Filosofia della storia è utile per comprendere lo spirito del tempo: “In questi tumultuosi avvenimenti mondiali una regola generale non serve, così come non serve il ricordo di analoghe situazioni, perché una cosa simile a un pallido ricordo è senza forza di fronte  alla vita e alla libertà del presente”

Giulio Sapelli


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